L’impresa vive in almeno due diverse, e convergenti, dimensioni del tempo. Il tempo medio-lungo del progetto e dei programmi da realizzare. E il tempo istantaneo delle scelte, delle reazioni ai cambiamenti di mercato, dei singoli passi ben scanditi del risultato finale. Sa fare i conti con i tempi quotidiani del controllo della produzione, delle vendite, delle scorte di magazzino di cui evitare gli eccessi. E con quelli, più lenti ma ben costruiti e controllati, del passaggio dall’idea iniziale di un prodotto o di un servizio alla ricerca, dall’ingegnerizzazione dei processi alla produzione e all’offerta sul mercato. C’è il tempo dei rendiconti trimestrali, soprattutto per le società quotate in borsa. E il tempo dei bilanci annuali o, per le più organizzate e previdenti, dei bilanci triennali rolling, che scorrono aggiornandosi per tenere conto delle novità macro e micro economiche, le evoluzioni sociali e politiche, il “cigno nero” degli eventi improvvisi (come il coronavirus, un disastro ambientale, le bizze nevrotiche e rissose di un governante con scarso controllo). L’impresa vive di tempo. L’impresa vive nel tempo, seguendo le scansioni della sua straordinaria complessità e lavorando per semplificare. E fare. Con lo sguardo lungo del programma. E lo sguardo corto della execution: realizzare bene, e tempestivamente, le cose annunciate e promesse. La politica, soprattutto in una democrazia liberale, ha, naturalmente, tempi diversi da quelli dell’impresa. Vive anche dei tempi lunghi (talvolta defatiganti) della dialettica, del dibattito, della ricerca della mediazione tra istanze diverse, della conquista faticosa del consenso. Ma non può tirarla troppo per le lunghe, pena la paralisi e, poi, il disincanto delle promesse tradite. Non può pretendere d’avere la stessa efficienza di un’impresa (anche per la diversa struttura della governance e della catena di comando). E però deve saper essere efficace. Dall’impresa può prendere il buon esempio della execution: decidere e poi sapere cosa fare, come, quando, con che scelte e realizzazioni intermedie e con chiarezza delle singole responsabilità. Il governo Conte, per le scelte necessarie ad affrontare l’emergenza Covid 19 e definire un credibile e realizzabile piano di sviluppo, proprio di questi criteri dovrebbe tenere gran conto.
C’è, appunto, la convergenza di buona cultura politica ed economica, di senso di responsabilità del governare bene e di chiarezza di realizzazione nell’idea di fondo che ha ispirato le pagine di “Italia 2030 – Proposte per lo sviluppo”, una raccolta di saggi curati da Marcello Messori e Renato Carli e pubblicata da La nave di Teseo, con una prefazione di Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda quando il libro fu ideato e adesso presidente di Confindustria….Sono tutti nomi prestigiosi di studiosi di economia e politica, parecchi anche con robusto impegno di gestione di imprese, università, strutture finanziarie. Alcuni, con impegni di governo. Una sintesi originale, dunque, di conoscenze, competenze, esperienze. Sullo sfondo, almeno tre grandi nomi della migliore cultura del Novecento: Max Weber, Hans Kelsen e soprattutto John Maynard Keynes, riletti con intelligenza critica alla luce dell’evoluzione delle idee e degli avvenimenti storici, nel cuore della nostra controversa contemporaneità. Quel libro è stato consegnato dal presidente Bonomi al presidente del Consiglio Conte, durante l’audizione di Confindustria agli Stati Generali e poi illustrato in pubblico, durante un seguitissimo webinar di “Genio&Impresa”, il web magazine di Assolombarda. Nelle pagine, ci sono le analisi sui motivi della bassissima crescita dell’economia e sulla palude stagnante della produttività, ferma da più di vent’anni, soprattutto per responsabilità di una legislazione eccessiva e confusa e di una pubblica amministrazione inefficiente, oltre che di servizi pubblici sottratti a un vera competizione di mercato. Le imprese migliori, in questi anni, hanno investito, innovato, esportato, conquistato quote rilevanti sui mercati internazionali. Ma il Paese resta bloccato. Adesso, l’intreccio tra la pandemia del Covid-19 e la conseguente recessione economica, ha aggravato le condizioni dell’Italia. Eppure, proprio la crisi, se ben affrontata, può essere una straordinaria occasione di ripartenza e cambiamento, nonostante la malattia, i lutti, la lunga paralisi economica e sociale, le paure, le nuove fratture che aggravano antichi squilibri e sempre meno sopportabili divari, anche di generazione e di genere. -…La letteratura economica e sociale, sul tema, è sovrabbondante. Purtroppo, però, poco letta e non tenuta in alcuna considerazione (e non da oggi) nelle stanze di governo, fatte poche eccezioni….La speranza, adesso, è che finalmente, di fronte all’urgenza delle scelte, il governo decida cosa fare, come e quando. Con una radicale scelta di fondo, che il volume “Italia 2030” indica con grande nettezza: non più mance, sussidi, sostegni e premi variamente distribuiti “a pioggia”, come se gli italiani fossimo un pubblico di sudditi questuanti in cerca di protezione, ma un serio piano di investimenti per cambiare e fare crescere il Paese, avendo a cuore alcuni punti fermi: la produttività, la competitività, la sostenibilità ambientale e sociale, l’innovazione.
Dunque, infrastrutture materiali e immateriali (come per esempio il 5G europeo), scuola e formazione, ricerca, riforma della pubblica amministrazione e della giustizia, stimoli per migliorare radicalmente la qualità del nostro capitale umano e del capitale sociale, del welfare e del mercato del lavoro (con una forte sollecitazione a una ben più massiccia partecipazione femminile). Né sussidi (se non per fronteggiare l’emergenza di chi ha perso redditi e lavoro) né pensioni anzitempo, né generiche flat tax né vaghe riduzioni dell’Iva. Ma investimenti. E una vera e propria scelta innovativa di politica industriale di respiro europeo, che rafforzi i “fattori abilitanti”, in grado di stimolare la produttività e la crescita delle imprese, da cui dipendono lavoro e benessere, coesione sociale e cambiamento. Le risorse finanziarie messe a disposizione, a vario titolo, dalla Ue (compresi gli sforamenti di bilancio) sono enormi: quasi 500 miliardi, da adesso ai prossimi tre anni, con il massiccio intervento da 750 miliardi del “Recovery Fund” battezzato con lungimiranza “Next Generation” (all’Italia dovrebbero arrivarne circa 170, dal 2021 in poi). Soldi da spendere bene, secondo le condivisibili direttrici indicate da Bruxelles: green economy e innovazione digitale. E da usare come acceleratore di altri investimenti privati. C’è anche un’idea politica di fondo, che fa già molto discutere: quella di una “democrazia negoziata”, che veda la partecipazione responsabile delle forze economiche e sociali. Non le suggestioni populiste e inefficaci dell’”uomo solo al comando”, dei “pieni poteri”, dell’autoritarismo plebiscitario che svuota parlamento, assemblee elettive locali, luoghi della democrazia liberale. Ma un’abitudine al confronto competente con i corpi sociali, come base perché politica e governo possano scegliere con conoscenza e senso di responsabilità, tenendo conto innanzitutto dell’interesse generale del Paese. Viene in mente la stagione migliore della “concertazione” con cui il governo Ciampi affrontò la difficilissima stagione di crisi dei primi anni Novanta, avviando l’Italia verso l’integrazione europea e la nascita dell’euro, uno straordinario punto di forza. O, facendo un passo ancora più indietro, ecco l’accordo tra la Confindustria di Angelo Costa e la Cgil di Giuseppe Di Vittorio, per la ricostruzione italiana dalle macerie del fascismo e della guerra: “Prima le fabbriche, poi le case”, cioè il primato del lavoro e dell’intraprendenza, come condizione di base per fare ripartire il Paese. Senza eccessi di retorica e di propaganda, ma con la forza del buon governo e lo sguardo attento all’emergenza e, contemporaneamente, lungimirante, anche stavolta si può ricominciare. L’”Italia 2030” è già domani.
blog Antonio Calabrò Giornalista, scrittore e vicepresidente di Assolombarda
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