L’avvento dello smartwork

Attualità RomaPost

Le aziende e i sistemi complessi, dunque, conoscevano lo smart working. Ne comprendevano strumenti e metodi almeno fin da quando era stato lanciato lo slogan anyhow anywhere anywhen nell’idea della compattezza creata da Internet per porre tutti in one common place. Lo esaltavano nei convegni e nelle pubblicazioni. Però non l’applicavano. Certo, il lavoro in remoto era andato intensificandosi con un incremento nel secondo decennio del millenio di un 5-10% anno su anno e poi del 20% tra il 2018 e il 2019. Statistiche che nascondevano paraventi come sperimentazioni ed iniziative utili per poter affermare che un buon numero di lavoratori avesse vissuto l’esperienza dello smart working, quasi come le gite a premio o la partecipazione ai clip pubblicitari aziendali.

Solo così si poteva dire che il 23% del pubblico impiego lavorava da remoto; d’altra parte il tema ai tavoli sindacali o manageriali era sempre associato agli argomenti della conciliazione del tempo tra lavoro e famiglia, quindi più come non lavoro che lavoro. Il 65% dei dipendenti delle grandi imprese cominciava a fare qualche giornata al mese di smart working, nell’idea manageriale della riduzione di costi associata nel computo alla riduzione d’orario (e di stipendio) finanziata statalmente. Paradossalmente era più veritiero il calcolo del 30% delle piccole imprese, sempre restie a subire mode tecnologiche inutili, sentite come tasse aggiuntive di sistema. Con un personale ridotto all’osso e saturo di cose da fare, lo smart working era per le Pmi un significativo calo di costi strutturali.

Per il resto l’argomento era in realtà fuffa propagandistica, mero marketing come i bilanci ambientali, i risparmi energetici, la differenziazione dei rifiuti, la promozione delle carriere delle donne, dei diversi razzialmente e sessualmente. Tematiche considerate di alta rilevanza per la reputation d’impresa, assai di più di quanto con contino per i consumatori. Calcolandoli tutti, i lavoratori fissi in smart working, quelli a metà tempo ed i saltuari  sfioravano le 600mila unità (Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano), circa il 3% dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, nell’ambito di un’economia digitalizzata globalmente per i suoi tre quarti. Per Eurostat nel 2018, l’Italia era ventiduesima su 27 paesi dell’Unione europea per l’impiego di smart working pubblico e privato.

Contemporaneamente anche il più pezzente, grazie all’esponenziale abbassamento dei tecnocosti e senza essere un esperto digitale, comunicava, relazionava, disegnava, studiava, acquistava, ascoltava musica, vedeva film, si trovava la ragazza e la lasciava, tutto digitalmente. Il contesto grazie ai devices ed alle connessioni più che veloci, spesso pubbliche e gratuite, era pronto al di là di decisioni politiche o manageriali. Come scrive Calabrò sulla dipendenza da tecnologia, le infrastrutture digitali sono ormai l’elemento principale che abilita l’interazione umana nelle modalità in cui comunichiamo, ci aiutiamo, studiamo o lavoriamo. Ci si trovava come all’alba della fine del primo decennio del secolo scorso con le strade delle principali città del mondo piene di carrozze di cavalli, malgrado l’automobile fosse stata inventata 15 anni prima. In un paio d’anni quelle strade videro solo sparuti equini di rappresentanza.

Smanioso di modernizzare o mostrarsi moderno, il Jobs Act aveva proposto nuove norme per lo smart working. Concepito come strumento per la famiglia, più che per il lavoro, il progetto normativo restò nullo; introdusse ufficialmente, nell’ordinamento, il lavoro agile, o smart working, senza cambiare il contratto di lavoro. La nuova modalità di svolgimento dell’attività lavorativa non doveva prevedere vincoli orari o spaziali ma non venne attuata, ignorata dalle parti sociali. Tre anni dopo, con sussiego e pompa, vennero partorite nella legge 81/2017 le Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato. L’animo era che se si poteva permettere alle aziende di mandare i lavoratori a casa, bisognava evitare che le prime poi ce li lasciassero per sempre. La paura che lo smart fosse un passo per il licenziamento c’era. La remotizzazione del lavoro venne ammessa allora, ma castrata. Ribaditi i canoni stretti del lavoro subordinato, quali l’orario, la geolocalizzazione del luogo di lavoro, il controllo tramite disponibilità immediata audio video.

Doveva essere la trasformazione finale del lavoro nel raggiungimento degli obiettivi tramite responsabilizzazione ed invece rimase il controllo sul lavoro supino per inerzia, senza flessibilità e autonomia nella scelta dell’orario e del luogo di lavoro. Le aziende che sull’habent corpus basano la loro visione del lavoro subordinato ottennero di non far passare lo smart dal tavolo sindacale con accordi simili a quelli del telelavoro. Venne introdotto un accordo standard tra azienda e lavoratore che era in fondo un prendere o lasciare, nell’idea che per il dipendente in fondo si trattasse di un vero e proprio benefit, il regalo di poter restare a casa, pur svolgendo ugualmente il proprio servizio. Ne derivò il danno economico, a macchia di leopardo (per esempio non attuata dalle Poste) della mancata erogazione dei buoni pasto, sostitutivi delle mense, che da anni i lavoratori utilizzavano per la spesa alimentare nei supermarket. Invece l’incasso dovuto ai risparmi strutturali sarebbe dovuto essere condiviso con i lavoratori. (2° parte)

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