Anche il sindacato alla lunga ha voluto dire la sua, dopo che la politica nel ’13, nel ’17 ed ora, in tempi di Covid, non l’ha mai preso in considerazione sull’argomento smart. Accademia e business battono sul tasto della condivisione con i lavoratori dei nuovi modi di organizzarsi e lavorare imposti dallo smart. E già si immagina il miraggio di decine di migliaia di persone che intervengono ed emendano nuove procedure o l’acquisto di un ambiente informatico di comunicazione. Eppure, tante volte viene citato il termine, impossibile ed illusorio – condivisione con i lavoratori – quante volte viene evitato di citare la rappresentanza sindacale dei lavoratori che potrebbe o dovrebbe esprimere l’effettiva condivisione o rifiutarla.
La ricerca di Cgil e Fondazione Di Vittorio ha sondato 6.170 persone delle sue strutture e milieu, con un questionario online tra aprile e maggio, senza intenzioni di scientificità; comunque come un campione degli 8 milioni di persone che hanno lavorato smart durante l’emergenza sanitaria. Secondo i lavoratori il virus ha imposto una cosa cui non era pronto nessuno, né dipendenti, né imprese; senza il covid l’82% non avrebbe fatto smart. I seimila hanno apprezzato molto (meno pendolarismo, maggiore flessibilità, migliore conoscenza di tecnologie) ed anche criticato tanto. Un altro mondo rispetto alla ricerca Federdirigenti. Qui brillava l’alta soddisfazione per lo smart dei lavoratori, contraccambiati dalle aziende che li complimentavano tutti, anche se anzianotti, con tutte le competenze digitali in tutte le funzioni, amministrative e comunicative e con i meridionali più bravi di tutti. Todos caballeros digitali.
Accademia ed esperti avevano plaudito allo smart come al revenge femminile. Immancabilmente per il sindacato, lo smart è stata la più grande fregatura per la donna con aumento dei carichi di lavoro domestico e di cura, i figli tra i piedi (senza effetto alberghiero delle scuole, chiuse ad oltranza), con lo stress correlato di un doppio lavoro digitale (per sé e per la didattica a distanza del figlio), la sofferenza per il ricircolo d’aria e con l’uggia di dover pietire il computer all’uomo, dato che in effetti alle donne vengono allo stato assegnati meno apparati aziendali. Solo il minor pendolarismo è stato apprezzato; il maggior tempo passato in famiglia ha avuto l’handicap della ricerca di uno spazio di lavoro, conteso tra cucina o il salotto o anche in altri posti a seconda della situazione. C’è chi è finito in balcone per il tono della voce (e la voglia di fumare): comunque solo un terzo disponeva di una stanza per sé. Un terzo degli interpellati ha ammesso di non avere conoscenze informatiche; la quasi totalità di non potere organizzarsi autonomamente il lavoro, per impostazione aziendale. I più si sono detti preoccupati per il diritto alla disconnessione, per la cancellazione delle pause di lavoro, per il controllo a distanza ma soprattutto per la mancanza di frequentazione dei colleghi. Suona strano e poco oggettivo che solo il 23% dei lavoratori abbia trovato nello smart un cambiamento; cambiamento che di fatto c’è stato.
Tutte le ricerche con maggiore o minore enfasi insistono sui pericoli psicologici rischiati dal lavoratore, perennemente isolato, costretto ad una comunicazione solo ufficiale ed ufficiosa, magari portato all’overworking, se indottovi dal sistema aziendale; oppure al contrario, condotto a scivolare in una certa indifferenza. In tutti questi casi gli stress prodotti peggiorerebbero produttività e qualità di vita con effetti opposti a quelli sperati. Si tratta di preoccupazioni pretestuose. A tenere alto lo stress nella società ci pensa una formazione subdola, strisciante, fantasiosa da immaginare la colpa ancor prima che ci siano le condizioni per compierla. In famiglia ci pensano già le incursioni a gamba tesa di magistrati ed assistenti sociali; provvedono l’insopportazione reciproca tra coniugi, tra genitori e figli, tra conviventi tutti a pazienza zero nei confronti del prossimo.
L’alienazione digitale è un fatto sociale, molto più diffusa delle già onnipresenti droghe e sovrasta inglobandolo il mondo del lavoro da molto prima che arrivasse lo smart. Semmai quest’ultimo è l’istituzionalizzazione, il riconoscimento ufficiale della dipendenza dalla tecnologia, mezzo principale e fondante di ampissima parte dell’interazione umana. E’ anche un respiro di sincero sollievo che permette di ammettere quanto da tempo era sottinteso; che il lavoro, o il chiacchiericcio con i colleghi è insopportabile e normalmente limitato all’invio di mail elettroniche, anche a pochi passi di distanza. Che poi ci sia un aumento dei rischi di isolamento dovuti a black out, è tutto da dimostrare; cosa avremmo fatto, prima dello smart in caso di assenza di connessione o, peggio, di elettricità? Sono decenni che la vita come la pensiamo e applichiamo sarebbe impossibile senza elettricità. Psicologicamente lo smart mette il lavoratore nella posizione migliore quella di convivere al meglio con l’alienato che è divenuto. Per poi proseguire sulla stessa linea e sugli stessi device, da cittadino.
E’ vera la rimostranza dei lavoratori relativa al fatto che lo smart applicato realmente non sia né quello teorizzato, né quello legiferato. Infatti, questi ultimi prevedevano uno svincolo del lavoratore dai tempi, dai luoghi e dalle gerarchie che non si è avverato. Non è questo però il punto che preme al sindacato. Questo, o meglio la Cgil, tira fuori l’assenza di libera scelta del lavoratore, per l’obbligo di smart senza soluzione di continuità per pandemia. La ricerca sottolinea che sono mancati gli accordi accedere allo smartworking (solo nel 27% dei casi con la presenza sindacale) o che per un terzo sia stata decisione unilaterale dell’impresa (ed è vero il contrario, il lavoratore è stato svincolato dall’accordo con impresa, potendo unilateralmente optare per lo smart). Il sindacato assume che la governance chiara aziendale basata sull’organizzazione del lavoro per obiettivi, nell’ampia autonomia del lavoratore, passi solo tramite la contrattazione con le rappresentanze dei lavoratori. Che poi dovrebbero con l’impresa regolamentare pianificazioni, processi di verifica e monitoraggio di detta autonomia.
Già le parole intuitivamente fanno capire quanto sia poco smart l’impostazione sindacale. In realtà, escluso da accordi diretti tra lavoratore ed impresa, come definiti dalla legge, il sindacato vuole rientrare come soggetto firmante sulla materia, obiettivo legittimo data la sua mission istituzionale. Quanto all’autonomia dei lavoratori, come idea e come pratica, è storicamente nemica del mondo sindacale reale e ne fu la maggiore contestante negli anni ’70. Il sindacato è ben poco organizzato in modo smart ed ha strette gerarchie quasi assolute, per poi affidarsi ad un lasco controllo sulla nebulosa delle migliaia di imprese di servizi che lavorano in franchising utilizzando il suo logo. Contrappone optime la propria gerarchia a gerarchia aziendale ed è ancora molto interessato al dove sei, con chi sei, chi vedi, chi ti vede. La priorità del solo se ci sei, connesso virtuale ed invisibile, elimina per esempio il senso delle assemblee sindacali, dove conta la presenza passiva dei convenuti ed il loro voto sulle piattaforme già elaborate e costituite. Non si gridi al primitivismo. L’idea fantastica di folle che virtualmente scrivono in un workflow milionario progetti e norme è stata tanto esaltata e contrabbandata politicamente da morire una volta che i loro fautori sono arrivati al potere. Le assemblee sindacali sono quello che sono, ma non c’è di meglio. E con lo smart muoiono del tutto.
Il sindacato non lo dice espressamente ma guarda con enorme sospetto ad un mondo dove sia importante soltanto essere connessi. Vent’anni in Ibm provò ad organizzare assemblee e scioperi virtuali; a seguire l’evoluzione digitale dell’impresa per esempio con le bacheche digitali, al posto dei volantini. Tutti flop drammatici. Così dove le garanzie occupazionali e stipendiali tengono per i 21 milioni di lavoratori a tempo indeterminato (cifra mai cambiata in 40 anni), si mugugna contro un cambiamento incompreso ma si vivacchia. Appena le garanzie cessano, tutti, sindacati e lavoratori, corrono a riempire la stretta via Molise, parallela a via Veneto, dove c’è l’entrata secondaria del Mise. Qui in pieno stile tra ottocento ed anni ’70 si torna alla piena fisicità di urla, tamburi, bandiere, blocchi, striscioni appena corretti dall’uso dei selfie e dalla diffusione immediata sui social.
Il lavoratore che dà valore aggiunto (che oltre la parola significa azionario), consapevole, accountable, trasparente, comunicante, voglioso di condividere, con obiettivi chiari e misurabili non è un lavoratore, ma un manager. Questo lavoratore sognato e trovato nelle ricerche dove addirittura il 47% dei dipendenti opererebbe liberamente per obiettivi individuali, nella realtà corrisponde al numero esiguo di coloro che, potendoselo permettere data la garanzia del posto, spaccano il capello, bloccando la propria e l’altrui attività. Il contrario del problem solving che non è una dote manageriale, ma al contrario dei dipendenti il cui buon senso mette una pezza alle difficoltà delle procedure aziendali. Lavoratori, descritti smart nelle ricerche, non li vorrebbe né il sindacato e nemmeno l’impresa. Sarebbero un esercito di filosofi che mettono in discussione ogni riga di procedura, invece di applicarla. Nemmeno la Fiom dei tempi d’oro degli scioperi di reparto, se non di catena, di 10 minuti improvvisi e reiterati. Non è un caso se il sindacalismo europeo non sia mai riuscito ad entrare nel settore informatico poi digitale; e non è stato soltanto perché mancava la giusta proporzione etnica.
Il lavoro informatico è smart per costituzione. Ciascun nerd programma e progetta pezzi di codice con chiari obiettivi e tempi tutti suoi. Lo spazio è suo e della sua competenza prioritaria; ci resta se fare quello che gli si chiede, anche con vie originali. Per lui la presenza fisica, per azioni prevedibili, inerziali e ripetitive, in quanto tale ha poco senso. Ne segue una catena di comando estremamente breve che si sviluppa per livelli diversi di montaggio e composizione. Ci sono settori però dove questo tipo di lavoro, che è l’artigianato moderno, non serve. Dove sono indispensabili azioni prevedibili, inerziali e ripetitive, quali sono quasi tutte le attività amministrative, che procedono per controlli continui.
Poi il lavoratore informatico digitale, il nerd, da bravo artigiano coder, trova soddisfazione, anche in carenza di danaro in più, nella propria creazione, anche mini. Altri lavoratori, cui non si chiede di creare, trovano soddisfazione anche solo con veramente esigui vantaggi economici, nella carriera che si traduce in supervisione, in catene di comando più lunghe, tra le quali si diffondono, sempre via digitale, ripetuti con parole di accompagno diverse, identici ordini di servizio. Ci sono milioni di lavoratori che vogliono fare, né sarebbero capaci di altro, un lavoro prevedibile, inerziale e ripetitivo. Anche questi ultimi hanno lavorato smart negli ultimi mesi, semplicemente rifacendo quello che facevano prima, inviandolo alla solita catena di comando e rifacendolo nel caso come ordinato. Senza spazio, senza fiducia, senza nuove competenze, senza obiettivi propri reali. Non è che non abbiano lavorato smart; semplicemente il lavoro smart reale spesso è lontano anni luce da come se lo immaginano nelle ricerche.
La cosa più importante per il sindacato però nelle ricerche non c’è. Non ci si può scordare che lo smart è istituzionalmente lavoro da colletti bianchi anche se un terzo delle tute blu dirige e configura gli strumenti dell’automazione per via digitale (con conseguenze ed interventi materiali se i robot non vanno). Negli ultimi decenni gli operai sono scomparsi dai libro matricola e dalle qualifiche. Pur non scomparsi sono stati soprattutto nei servizi nascosti. Lo smart li riporta completamente alla luce. Divide il mondo del lavoro in due blocchi, quello che può lavorare al 100% a distanza muovendo dati, vendite, acquisti, comandi in remoto e quello che non può, che deve passare la malta, spostare le cose, verificare l’acquisto e incassare, pulire e guarire.
Per i contratti collettivi questa divisione non c’è; non risulta nelle pensioni, negli stipendi, nell’approccio sociale e amministrativo. Per la tecnologia, ed è questo che conta, la differenza c’è. Per esempio ogni lavoro smart tutto digitale può essere softwarizzato ed automatizzato. E gli 8 milioni di smarter potrebbero essere i primi a perdere il lavoro, in una lunga prospettiva. Più probabilmente non verranno sostituiti da altri umani ma assorbiti dal minore cut spending necessario alle imprese per sopravvivere.
Il sindacato non pare allarmato da questa spada di Damocle presente sul mondo impiegatizio che li riporta allo status umile e questuante di Fantozzi. Ne è trasecolato alla scoperta della esistenza degli operai, paradossalmente più sicuri degli altri nel mondo digitale.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.