La Gran Bretagna è l’unico paese che è potuta entrare nell’Unione europea e che ne è potuta uscire, dopo 47 anni, ugualmente secondo il proprio intendimento. Ciò è dovuto al fatto che la Gran Bretagna è l’unico paese che fattivamente abbia vinto la guerra. Per tutti gli altri la pace non è stata solo il trattato, le sue condizioni e le alleanze con occupazione inclusa ma anche tutta una serie di ragnatele di accordi economici e collaborativi che in effetti sull’altare dell’indipendenza nazionalistica, hanno ottenuto la pace duratura. Per tutti i paesi continentali l’exit sarebbe una pericolosa denuncia non solo dei trattati europei , ma anche di quelli occidentali, essendo i primi base politica dei secondi.
I conservatori inglesi, dopo pochi anni dall’adesione, manifestarono spesso il loro scontento. Nel nuovo millennio caratterizzato dall’unificazione e poi dall’egemonia economica tedesca, tutti gli inglesi si sono sentiti sempre più a disagio, inquilini minoritari di un palazzo dove tutti gli altri usano la proprio moneta. Nondimeno, se i tedeschi controllavano il sistema bancario, gli inglesi gestivano quello finanziario.
I sostenitori dello status quo paragonabili ai metternichiani filo congressisti di Vienna, hanno urlato per il risultato del referendum sulla Brexit , zittendosi solo di fronte alla travolgente vittoria del governo Johnson; ora riurlano di fronte al progetto di legge Internal Markets Bill, che in sintesi garantisce al governo di Londra piena giurisdizione sul commercio all’interno del paese. Sembrerebbe cosa naturalissima, pena la limitazione dell’indipendenza del paese.
Sarebbe però come se Roma cassasse lo status di regioni speciali a Val d’Aosta e provincia di Trento e Bolzano, che sono aree a sovranità limitata, garantite da Francia e Austria. Cosa che era assurda quando venne stabilita, stante il collaborazionismo ed il filo nazismo presenti nell’una e nell’altra, e che oggi appare umiliante, al punto che meriterebbe rinunciare a quei territori, se non venissero eliminate le limitazioni ricordate.
La questione è politica e territoriale. E la Gran Bretagna è l’ultimo paese europeo che ha combattuto per un suo territorio, peraltro posto agli antipodi dell’emisfero meridionale terrestre. I primi accordi per una Brexit concordata hanno dovuto affrontare il problema della divisione doganale dell’Irlanda. La Brexit oggettivamente divide Eire da Nordirlanda, ponendo la prima nell’Unione, la seconda fuori. Anche se divisi da bandiere e governi, i due territori, nell’ambito europeo, hanno trovato una loro unità.
L’unione doganale fu la prospettiva comune di pace dell’accordo del Venerdì Santo del ’98 che pose fine al terrorismo dei cattolici nordirlandesi ed alla guerra civile tra loro ed i protestanti nordirlandesi. L’Irlanda, ancora sotto governo inglese dopo la Grande Guerra, si sentiva un possedimento coloniale; malgrado somiglianza di lingua e costumi percepiva il dominio inglese come quello di una potenza straniera.
Non essendo in grado di raggiungere l’indipendenza con le armi, propendeva per il terrorismo. Se nel ’21, anno dell’indipendenza dell’Eire, stalinisticamente si fosse provveduto a dividere cattolici e protestanti al di qua ed al di là dei confini, o la Gran Bretagna avesse rinunciato alla testa di ponte irlandese, il problema oggi non si porrebbe.
Fatto sta che il preaccordo di uscita inglese dall’Unione, il Withdrawal agreement, prevede che il Nordirlanda rimanga sotto i regolamenti commerciali europei, unito doganalmente all’Irlanda, ma disgraziatamente diviso dal resto del Regno Unito, nell’occasione parecchio disunito. L’hard border dividerebbe Inghilterra, Scozia e Galles dalle Irlande. Difficile pensare che Londra lo possa accettare. Perché lo ha firmato? Evidentemente per mettere un punto fermo alle trattative con gli europei dopo i tanti tentativi infruttuosi del governo May.
Ora dalla Von Leyen, dal premier irish Martin, anche dal ridicolo Sassoli e dai democratici Usa, vengono minacce di adire vie legali per la violazione di accordi internazionali. E’ una reazione, a parte il contenuto, tipica dell’Europa che sulla base delle pastoie internazburocratiche è abituata a lasciare le decisioni all’esercito americano ed alle banche ed i fondi internazionali. Appaiono però ridicole le istanze giurisprudenziali. Perché la Gran Bretagna dovrebbe accettare un arbitrato o una corte internazionale su questioni interne? Appare la strada migliore per indurre gli inglesi, dopo gli americani, ad abbandonare le organizzazioni internazionali. Quanto alla reputation, è molto plausibile che gli inglesi ne guadagnino nella vicenda.
Certo, la surrettizia unità irlandese troverà la fine; gli U2 ricanteranno Sunday bloody Sunday, con molto sostegno tedesco, russo e di altri, che peraltro per due secoli a parole si sono sempre spesi per la causa irish. Difficile che rinasca il terrorismo dell’imborghesito Sin Fein; gli irlandesi, come anche gli italiani, non sono più quei negri bianchi poveri, cenciosi e pronti a tutto di decenni fa.
Poi la Brexit comporterà l’isolamento inglese o più plausibilmente l’unificazione finanziario commerciale, che oggi vuol dire politica, tra inglesi ed americani che sono la loro versione uploaded ed extended, molto probabile se la Brexit finisse con uno strappo irritante da no deal. I grandissimi Usa come un grande Zefiro, soffieranno dritto nell’orecchio europeo, facendo diretta ed immediata concorrenza ai prodotti ed alle regole del vecchio continente. Magari Londonderry si troverà bene.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.