“L’invidia della felicità”, è questo il movente di Antonio De Marco ?

Cronaca

Scrivono del ragazzo che ha confessato l’omicidio di De Santis e della fidanzata: «Nessuno sembra conoscerlo. Nessuno sembra averlo mai visto prima». Torna alla mente Rimbaud. E Pasolini

Cosa sarà mai l’invidia per la felicità altrui? Cosa sarà mai, per di più in un bravo e bel ragazzo che come tutti i ragazzi è fatto di desiderio di felicità? È stato un bravo ragazzo – «un angelo di ragazzo», direbbe una zia Concettina priva di ogni malizia in quel Sud che il male di vivere l’ha iniziato a conoscere con l’arrivo della pasoliniana «scomparsa delle lucciole» e il degrado consumistico.

È stato un ragazzo che basta un verso di Rimbaud per fotografarlo, forse la mattina di ogni giorno che usciva da quell’appartamento condiviso coi due giovani coinquilini che un bel giorno avrebbe massacrato premeditatamente con un coltellaccio da macellaio. Voleva fare l’infermiere, capite?

Dice Rimbaud di sé come di ogni altro ragazzo che entra come ogni mattino in qualche scuola, università, corso da infermiere immerso in un vuoto di autocoscienza totale («cattivo sangue» lo chiama il poeta):

«Al mattino avevo lo sguardo così perso e un aspetto così smorto che quelli che ho incontrato forse non mi hanno visto».

E un aspetto così smorto che quelli che ho incontrato forse non mi hanno visto. Sembra la cronaca di ieri del Corriere della Sera appena ricevuta la notizia della confessione del ragazzo, 21 anni, studente di infermieristica:

«Il nome e il volto di Antonio De Marco finora non dicevano niente a nessuno. Un banale ragazzo della porta accanto, uno che passava inosservato, uno studente dall’aspetto e dai modi rassicuranti, uno tra tanti insomma. Anche all’ospedale Fazzi di Lecce, dove frequentava il corso di Scienze infermieristiche, di De Marco sanno, o dicono, poco. Nessuno sembra conoscerlo. Nessuno sembra averlo mai visto prima. A nessuno dice niente quel volto comune».

Nessuno sembrava conoscerlo. Nessuno sembrava come Rimbaud averlo mai visto. Preso, supponiamo, da un cattivo sangue persistente. Che scuole avrà mai fatto? Che prima comunione e che cresima? A quale ideale di vita sarà mai stato introdotto? O nella sua vita avrà solo mangiato pasticcini, si sarà nutrito solo di social e realtà virtuale che ha fatto manbassa di un cervello e di un’anima? Forse neppure i Demoni di Dostoevskij sorreggono il confronto. Si era munito di stringi tubo «forse per torturare prima di uccidere». Voleva fare un mestiere che cura le ferite fisiche e psicologiche delle persone, capite?

All’inizio, quando i poliziotti lo hanno fermato, ha negato tutto. Ma perché negare il vuoto? E così, la mattina presto è crollato, forse la prima mattina da molto tempo senza cattivo sangue ma riconoscendo la cattiveria e il sangue; così ha confessato, non riuscendo però neanche a sputare il movente di un atto furibondo, bestiale, e proprio perché bestiale, vuoto, cieco, privo di qualunque movente umano.

Racconta il cronista di nera del Corriere:

«È trapelata una frase: “La vendetta è un piatto da servire freddo, e almeno per un po’ ti dà sollievo», che De Marco, 21 anni, studente di Scienze infermieristiche a Lecce, avrebbe letto sul web in un sito di argomenti psicologici della grande discarica internettiana e avrebbe fatto propria. Per poi decidersi ad agire, con una lucidità e una programmazione del massacro davvero impressionanti».

Impressionanti, vero. Come quella famosa osservazione che Pier Paolo Pasolini fece sulla gioventù che intuiva crescere intorno a lui. Scriveva il poeta di Casarsa migrato a Roma:

«Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. Nei casi peggiori sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In realtà, potrebbero essere quasi tutti… Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamenti contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata».

Adesso direte che erano i ventenni di cinquant’anni fa, che c’entrano con i ventenni odierni di Lecce, Roma o Milano? Direi che sono i figli dei ventenni degli anni di Pasolini. Il trionfo al cubo del vuoto ereditato, del conformismo ereditato, del vuoto di carità e di amore che Pasolini intravvide estendersi fino al papato e giù, fino al cattolicesimo che non ama niente e nessuno. Ma ha il discorso giusto. E siamo solo al terzo punto del trattato che Pier Paolo Pasolini annunciò a un Gennariello qualsiasi che sarebbe potuto essere perfino Antonio De Marco, di anni 21, Lecce, voleva fare l’infermiere, capite?

E invece «erano troppo felici, mi è montata la rabbia, li ho uccisi». Io penso che sia il movente della stessa modernità rispetto a Cristo e a tutto ciò che da Cristo è disceso e discende come ipotesi di assetto personale e sociale. (Sia detto per inciso: hanno tentato di uccidere Cl in Lombardia per questo. E cosi hanno – quasi – tolto di mezzo una possibilità di speranza per i propri figli, e questo è imperdonabile).

Infine, come annunciato, terzo punto del trattato di Pasolini a Gennariello:

«I due genitori: che sono i tuoi educatori ufficiali, se non ancora i tuoi diseducatori. Tuttavia, come vedremo, tra la loro intenzione pedagogica nei tuoi riguardi e la realizzazione di tale intenzione, c’è un diaframma il cui spessore è immenso: si tratta del tuo rapporto d’amore e di odio con essi. Ti spiegherò insomma che cosa succede nella famiglia.

Passeremo poi alla scuola, cioè a quell’insieme organizzativo e culturale che ti ha completamente diseducato, e ti pone qui davanti a me come un povero idiota, umiliato, anzi degradato, incapace a capire, chiuso in una morsa di meschinità mentale che, fra l’altro, ti angoscia. L’anti-scuola (cioè la polemica politica contro la scuola, che tu hai recepito e assimilato attraverso una contestazione in questi anni ormai completamente depauperata ed esautorata) non è meno diseducativa. Essa ti impone un conformismo non meno degradante ed angosciante di quello della scuola.

Ti parlerò prima dei tuoi maestri elementari e poi dei tuoi professori: questi duplicati dei padri e delle madri, autori della tua diseducazione. (Se qualcuno invece ti avesse educato, non potrebbe averlo fatto che col suo essere, non col suo parlare. Cioè, col suo amore o la sua possibilità di amore: non è detto che, in qualche caso, il più umile dei tuoi insegnanti possa essere un uomo che non appartiene alla sottocultura ma alla cultura)»

Cercasi disperatamente il più umile dei genitori, il più umile degli insegnanti, il più umile dei maestri.

Luigi Amicone (Tempi)

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