Chiude “The sky in a room”: termina il progetto Fondazione Trussardi

Cultura e spettacolo

Si chiude, dopo poco più di un mese, “The sky in a room”, il monumento sonoro sotto forma di performance dell’artista islandese Ragnar Kjartansson che la Fondazione Nicola Trussardi ha portato a Milano con la curatela di Massimiliano Gioni. L’atto artistico ha ruotato, in tutti questi giorni, sei ore al giorno, attorno alla ripetizione della canzone “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, accompagnata dall’organo della chiesa di San Carlo al Lazzaretto. I cantanti professionisti si alternavano nel corso delle giornate e il rito, perché di questo si trattava, è durato, dicono le cifre ufficiali, 208 ore. La canzone – ha fatto sapere la Fondazione Trussardi – è stata seguita per 2800 volte; ogni performer ha suonato e cantato in media per 35 ore, eseguendo la canzone per 460 volte. Il tutto dentro una chiesa che, storicamente, stava al centro del lazzaretto milanese, ossia, al centro della peste.

Il collegamento storico tra le pandemie del passato e la presente è stato uno dei punti su cui si è costruita la narrazione dell’opera sonora di Kjartansson – uno degli artisti che “sono” la scena contemporanea, che la creano e la modificano – e che, certamente, ha influenzato anche i visitatori che si sono seduti sulle panche della chiesa dal 22 settembre a oggi. Periodo nel quale la nostra di pandemia ha vissuto un’accelerazione e ci ha riportato ai momenti difficili della primavera di quest’anno. Ma tutto questo, adesso possiamo sentirci liberi di scrivere, quasi nulla ha a che fare con il cuore vero del lavoro di Kjartansson e con la bellezza (la parola è questa, per quanto possa apparire inadeguata o naive, trattando di contemporaneo) che “The sky in a room” ha sparso per ore intorno alla chiesa di San Carlino. Una bellezza che nasce da elementi spurii come la musica pop e in particolare una canzone di Gino Paoli che presenta, accanto alla propria innegabile leggenda, passaggi sdolcinati, al limite del ridicolo. Ma proprio qui, direbbe Thomas Eliot, cade l’ombra: l’arte contemporanea trova una sua ragione d’essere profonda quando dialoga con la cultura popolare, con il suo essere realmente popolare, e, assumendone dei contenuti (o degli atteggiamenti, una sorta di indole, insomma) li spinge oltre, li porta in una dimensione nella quale davvero possono esserci gli “alberi infiniti” e le stanze perdono le loro pareti. Che sono quelle della percezione degli spettatori (scegliete voi se scomodare Aldous Huxley o i Doors) oltre che, nel passato, proprio le pareti della chiesa, che originariamente non ne aveva, perché tutto il popolo del lazzaretto, già così provato dalla sofferenza, potesse avere almeno il conforto di vedere, da qualunque direzione, il luogo sacro e il suo conforto.

Oggi il conforto sta nel riconoscerci per quello che, almeno in parte siamo, sta nell’abbandonarsi a un’esperienza che è individuale nella comunità, che è popolare e al tempo stesso concettuale. Insomma, è come se Ragnar Kjartansson avesse trovato la quadratura del cerchio di molti dibattiti infiniti sulla cultura. “Come se”, perché ovviamente non basta un’opera né una serie di emozioni individuali che la rimodellano in continuazione, ma, nell’arco del tempo concesso all’interno della performance – mezz’ora, più o meno – qualcosa succede e si sente che quel cerchio, almeno per noi, ha preso senso, ha creato qualcosa. Naturalmente effimero, inafferrabile, difficile perfino da raccontare, e si corre il rischio di passare per boccaloni, ma non importa, perché è proprio nell’effimero che si trovano le cose che hanno davvero valore. Poi la vita riprende il suo corso, come succede, ma qualcosa rimane, per citare un’altra canzone pop, tra le pagine chiare e le pagine scure.

Ovviamente non sono mancate le voci critiche, i commenti delusi, le ironie. Attaccare Massimiliano Gioni è prassi abbastanza comune e le uscite para retoriche, in un periodo come quello che viviamo, sono all’ordine del giorno. E’ molto probabile che “The sky in a room” sia una di quelle opere d’arte che vivono di sensazioni estreme: o magnifiche o di profonda delusione. Ovviamente ogni valutazione è legittima, così come è assolutamente rispettabile la posizione di chi fa notare che l’idea di un tributo alle persone che hanno combattuto il Covid fosse debole. Ma l’opera stava già da prima altrove, l’opera è altro, è un dispositivo di natura diversa sulla quale si possono poi costruire riferimenti, ma che vive a prescindere da quelli, vive sotto forma di esperienza, sciolta dalle contingenze e dalle circostanze, ironica e autoironica eppure potente, sfacciata e brillante, pur in tempi difficili, come Ragnar Kjartansson, crooner malinconico della contemporaneità, sa essere in modo unico. E senza la litania pop che vibrava da San Carlo al Lazzaretto, Milano sarà comunque diversa, da domani. (askanews)

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