Tutto è iniziato la mattina del 10 Marzo scorso. Qualche avvisaglia vi era stata nei giorni precedenti in quanto lo spostamento da una camera all’altra di alcuni nostri ragazzi non era passato inosservato. Nemmeno a un “distratto” come me. Quella mattina, intorno alle 11,00, piombano in reparto dottori, infermieri, ambulanza, personale sanitario tutto abbardato con camici, guanti, mascherine e non so quale altro oggetto di protezione. Sembrava di essere sul set di Grey’s Anatomy. Non era così. Era tutto vero. Un nostro ragazzo veniva trasportato in Ospedale perché risultato positivo al virus.
Da giorni in Italia si era diffuso il Coronavirus di cui già molto avevamo sentito parlare con le notizie che arrivavano dalla Cina. Ma forse mai avremmo immaginato che questo “male” improvviso che ci è piombato addosso ci invadesse così rapidamente da lasciare l’Italia e noi impreparati. Forse anche la Fondazione Don Gnocchi, seppur all’avanguardia in questo settore, è stata colta di sorpresa ed un po’ impreparata ad un evento di simile portata. Ma quali colpe gli si possono attribuire? Personalmente ho vissuto sin dal suo nascere il “problema” grazie alla fortuna di essere negativo ai tamponi effettuati. Ho visto e lo posso testimoniare l’impegno, la “discesa in campo” di tutti i vertici del centro Santa Maria Nascente, ogni giorno, in ogni momento. Non ci hanno mai lasciato soli. Momenti di confronto ed aggiornamento quasi quotidiani. Attenzione e cura della nostra persona con prevenzioni ed accortezze necessarie. Grazie al loro fondamentale apporto ed alla serenità che ci hanno trasmesso. Sono rimasto in “campo” per tutto questo periodo offrendo la mia disponibilità a coprire turni o fare ore in più vista la cospicua assenza dei miei colleghi colpiti dal virus. E posso dirvi, con assoluta sincerità, che in 32 anni di servizio mai avevo vissuto una situazione simile che da tragica si è trasformata, per me, in un’esperienza che mi ha completamente trasformato nonostante la mia non più giovane età.
Ho vissuto due mesi “incredibili” con l’entusiasmo di un ragazzino. Incredibili non per le difficoltà (normale che ci siano state e ci saranno ancora), ma per il clima che si è creato tra noi vecchi e nuovi operatori. Abbiamo accolto colleghi provenienti da altre sedi o assunti per l’emergenza e li abbiamo fatti sentire a casa, da subito. Non c’era il tempo di “insegnare” il mestiere, non ne avevamo!! Subito in “trincea” ad aiutarli a conoscere i nostri ragazzi e le loro esigenze in fretta, senza perdere tempo. Ne è nata una sintonia straordinaria vissuta con “gioia” in alcuni momenti. La fatica dei doppi turni, della poca conoscenza di luoghi nuovi e persone non ha frenato la voglia di conoscersi e vivere insieme questo momento. Condividere pranzi o cene, dormire nella stessa stanza perché non c’era il tempo di rientrare a casa tra un turno e l’altro, fare due chiacchiere sulle proprie esperienze, raccontarsi o semplicemente conoscersi e, quando serviva, farsi forza a vicenda è stato davvero gratificante. Lo scambio di esperienze quando è toccato a me trasferirmi in una sede diversa per le stesse ragioni che avevano caratterizzato la mia abituale, è risultato identico. Stesse sensazioni, stesse emozioni, stesso entusiasmo. Almeno per me.
Un esperienza “incredibile” anche quella vissuta con i colleghi di sempre, quelli che conosci da anni con cui lavori da tempo. Perché nonostante si lavori insieme da anni, a volte non si ha il tempo di condividere “certi” momenti che riescono a tirar fuori il meglio di te.
Potrà sembrare fantascienza, ma vi assicuro che è stato cosi, anche tra noi “vecchi” colleghi in questo periodo si è passati dal semplice e scontato “ciao” ad instaurare un rapporto di affetto ed amicizia. Cogliere, anche dal più giovane o dall’ultimo arrivato, insegnamenti e complicità emotive e davvero “tanta roba”. Ed io ringrazio che mi ha “donato” tutto questo e continua a farlo.
Forse non c’è ne siamo accorti ma abbiamo creato una “Famiglia”, esattamente ciò di cui i nostri ragazzi avevano bisogno. Giorni e giorni chiusi in camera senza poter “vivere” la loro quotidianità deve essere stato ed è per loro un grande sacrificio unito al dolore per un compagno di vita che se ne andato. Ma noi eravamo lì in trincea a combattere questa battaglia e vincerla. Non li abbiamo lasciati soli. Noi, tutti, indipendentemente dal ruolo ricoperto. Nessuno è perfetto, nessuno è indispensabile. Siamo tutti utili. Ciascuno secondo le proprie competenze.
Appunto , competenze. Non puoi superare questi drammatici momenti o questa esperienza che è e resta incredibile se a sostenere questa grande famiglia non c’è qualcuno che ti guida, ti sprona, ti incoraggia, si preoccupa di te. Qualcuno (o meglio qualcuna nel nostro caso) che in questa situazione di piena emergenza è stata capace di mettere in gioco tutta la sua umanità e competenza. Essere la prima ad arrivare e l’ultima ad andare a casa o meglio a riposare nelle stanze messe a disposizione dalla Fondazione ogni giorno, sino allo svenimento merita un grazie ed una riconoscenza che io, umilmente, mi sento di rivolgerle.
Un esperienza “incredibile” che mi ha letteralmente cambiato dentro. Sono emerso io nella mia totalità, sono emerse le mie convinzioni e sicurezze. E’ cresciuta la fiducia ed autostima in me stesso. Sono ritornato indietro con il tempo, nel 1988 quando allora 24 enne, ho iniziato il mio cammino professionale in Fondazione. Un ragazzino pieno di entusiasmo e voglia di spaccare il mondo che, con l’avanzare dell’età e come è naturale che sia, perdi per strada. Oggi ho ritrovato e riscoperto quell’entusiasmo. Ed è incredibile quanto un’esperienza come questa dove la paura di un possibile contagio ti toglie serenità e certezze, in me ha risvegliato tutto ciò che davo ormai per scontato: la sensibilità nel nostro lavoro che ogni giorno metti al servizio dei ragazzi a cui sono affidate le tue cure.
Incredibile è stato ed è ancora oggi il coraggio e la capacità di adeguarsi ad una situazione difficile dei nostri ragazzi. Hanno dovuto abbandonare le loro abitudini quotidiane, imparare a convivere in un contesto diverso dalla normalità. Sono indubbiamente degli eroi ed il loro esempio è un ricordo ed un’ insegnamento di vita che non dimenticherò.
In questi due mesi ho imparato come, a volte, sia sufficiente cogliere lo sguardo di chi ti sta accanto e sta con te condividendo un percorso non solo lavorativo ma anche di amicizia; come a volte è sufficiente incrociare lo sguardo di un tuo ragazzo/a che, seppur senza voce, è lì a dirti tutto il suo grazie perché sei li con lui/e, non lo hai lasciato/a sola.
Il momento di emergenza che abbiamo vissuto è stata un’occasione che ha cambiato i nostri rapporti, il modo di lavorare. Ogni giorno entro al lavoro più “attento”, non solo alle misure sanitarie, ma a quello che c’è, ai nostri ragazzi, alle loro domande ed al loro bisogno, innanzitutto, di conforto. Ma io dove sono chiamato a stare ? Forse dove sono stato sino ad oggi. Ognuno può trovare in se stesso la risposta, la deve cercare.
A volte è difficile, quasi impossibile, perché veniamo sopraffatti dalle nostre fragilità. Non siamo gente che si muove per eroismo, ma per il desiderio di condividere, anche in una situazione come questa, quello che abbiamo ricevuto.
Rifarei tutto ciò che mi sono sentito di fare sino ad oggi pronto ed orgoglioso di essere al posto giusto e nel momento giusto. E ciò che ho fatto è essere al servizio di una importante causa in cui credevo. Questo maledetto Coronavirus avrei potuto e potrei ancora prenderlo in qualsiasi luogo e momento.
Oggi, chi è rinchiuso da settimane in una camera, ha bisogno anche di me. Oggi più di ieri.
Antonio Spinelli
Operatore Socio Sanitario RSD
Fondazione Don Carlo Gnocchi
Santa Maria Nascente – Milano –
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