Giulio Tremonti ha rilasciato un’intervista a Francesco Specchia su Libero con la magistrale competenza che gli appartiene. Ovviamente si parla di economia, ma anche del governo attuale e di democrazia. Riportiamo le risposte più incisive
…lei mi sta dicendo che si rischia di subordinare a concetti strettamente etici e -diciamo – eccessivamente progressisti la semplice erogazione di un fondo comunitario seppur importante?
«Questo è il merito. Il metodo invece è lo scambio tra una politica giusta – quella fatta con gli eurobond da me da sempre proposti- che rischia di essere bloccata o ritardata dalla tecnica dello scambio-ricatto. Fino al paradosso evidente nello scritto di Soros (sul Sole 24 Ore, ndr) secondo cui sarebbero Ungheria e Polonia a ricattare Bruxelles e non viceversa. Se entri nel circuito del ricatto chi ha cominciato per primo non ne esce. L’anomalia è il tentativo di monetizzare la democrazia: lo scambio tra soldi e diritti. E anche tra sentimenti e risentimenti. A Soros si deve opporre l’oggettivamente superiore Camus che nel ’55, in una lezione ad Atene sul Futuro della civiltà europea faceva appello agli individui superiori capaci di dominare i propri risentimenti. In tempo di peste Camus batte Soros, due a zero palla al centro».
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Però, perdoni. Ma, dal rifiuto di Orban a non accettare i migranti degli altri stati (pur pretendendone i soldi dal fondo di coesione) fino alla posizione sull’antisemitismo, qualche dubbio di civiltà, lì, può venire.
«La democrazia, lì, è ancora incompiuta. Non solo nel campo dei diritti postmoderni ma anche in quello dei diritti dei lavoratori. La scelta unitaria di chiudere il rapporto di lavoro viene duramente sanzionata, ci sono problemi col pagamento degli straordinari: soprattutto di questo dovrebbe occuparsi Bruxelles. Ma le faccio notare che qui si parla di un’Unione che è partita dall’economia per arrivare ai diritti. Diciamo che se il fine è giusto il mezzo è sbagliato. Con questo, io non faccio l’avvocato dei paesi dell’est e per inciso avendo proposto nel 2003 gli Eurobond con cui l’Europa si mette finalmente dal lato giusto della storia, non credo di essere sospettabile di antieuropeismo».
Mai detto il contrario. Ma, a questo punto, data l’urgenza del Recovery e del fondo Next Generation Ue (su 38 miliardi di Legge di bilancio, almeno 15 li abbiamo messi in conto all’Europa), come la sblocchiamo?
«Per mia esperienza troveranno un’exitstrategy, una soluzione di compromesso, tipo “fermare l’orologio” o “scindere le clausole”. Per il resto, è vero: il ritardo nuoce gravemente all’Italia, basta guardare il bilancio in discussione che punta sui soldi Ue come fossero attuali e non come se fossero un future sul 2021 come minimo».
Mi pare che lei leghi anche la nostra finanziaria al concetto di democrazia, o no?
«Il cuore della democrazia, la sua origine storica, è nel bilancio pubblico come deve essere votato dai Parlamenti. Ora inizia la discussione sul bilancio italiano: qui abbiamo una sola Camera chiamata a votare e un solo mese di tempo per discutere. Di solito la sessione di bilancio vede l’assalto da parte del Parlamento, qui l’assalto l’ha fatto il governo. Come è evidente in un testo popolato da un vastissimo bestiario di interventi, dall’articolo per Cinecittà alla costituzione di nuove società di dubbia utilità (come una società per gli alberi in città). Nella parte sostanziale si prevedono fondi per interventi ma regolamenti attuativi che poi sono normalmente assenti vanificano gli interventi stessi».
Certo. Per non dire dei decreti attuativi mancanti sulla maggioranza delle leggi sulle infrastrutture; dell’aumento del reddito di cittadinanza e non delle connesse politiche attive del lavoro; dei bonus a pioggia. Non ci vede una mancanza di visione a lungo termine (quantomeno)?
«La macchina legislativa ha riempito il serbatoio con la benzina del debito pubblico ma così si è cappottata in garage. In generale, nel testo delle finanziarie che va in Senato si riflette il caos iniziato da marzo: un chilometrico serpente legislativo che si strangola nelle sue stesse spire. Come la gestione della pandemia è stata caotica nel conflitto tra diversi “poteri”, tra infiniti Dpcm, così è per la gestione dell’economia: coi decreti che inseguono i dpcm, siamo già al terzo decreto Ristori. Un decreto al giorno toglie l’elettore di torno».
Avverto una sottile ironia, professore.
«Nel Palazzo è in atto un’orgia legislativa ma è così che si distrugge, via via, la certezza del diritto senza la quale i regimi finiscono, anche quelli parlamentari. La Rivoluzione francese si basava sui cahiers de doléances che volevano un re, una legge, un ruolo d’imposta. Il re non gli diede ascolto e perse la testa. Forse qui c’è una metafora».
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Amato ci entrò nei conti correnti. Lei, ora, si riferisce ad una patrimoniale, come paventato dal ministro Provenzano?
«La patrimoniale è una cazzata abissale. La chiedono le élite finanziarie e la pagano i poveri. Il trasferimento di una quota enorme di denaro dai conti bancari degli italiani fa saltare le banche e di conseguenza il risparmio stesso. Sugli immobili dovresti prevedere che il cittadino che non può vendere l’appartamento a mercato saturo, la paga con la dazione in natura delle porte e le finestre al Tesoro. E in ogni caso 5/10 punti di Pil in meno non fanno la differenza».
Si parla di debito pubblico esplosivo. Mario Draghi citò una differenza fondamentale tra debito buono (per le infrastrutture, per esempio) e debito cattivo improduttivo. Lei è d’accordo?
«Il debito eccessivo può anche essere meno eccessivo se è produttivo, è la Golden Rule di cui si parla da decenni in Europa, non è solo Draghi. Nel caso italiano ci sono fortissimi dubbi sugli effetti produttivi ma c’è una certezza di una spesa corrente tutto fuorché produttiva, Fare debito è drammatico, fare gli incentivi per i monopattini è comico. Tra comica e dramma c’è una qualche rivelatrice suicida differenza».
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