L’opinione Di Massimo Cacciari in un’intervista a La Stampa di cui segnaliamo le sue considerazioni sulle conseguenze sociali, dopo il virus
“Temo che le conseguenze culturali e psicologiche della bio-thanato politica che stiamo vivendo saranno ancora più dure da vincere delle ingiustizie che questa crisi va moltiplicando, non solo sul piano della distribuzione della ricchezza e del reddito tra settori economici e ceti sociali, non soltanto, e ci torneremo, nel rapporto tra le generazioni, ma addirittura per quanto riguarda la nostra condizione di fronte alla morte: dati forniti da organismi internazionali come il Fondo monetario ci dicono che negli Usa le famiglie povere hanno subito quattro volte più perdite di quelle ricche. Sarebbe interessante disporre anche di tali dati, e non solo di quelli ammassati quotidianamente nei bollettini riguardanti contagiati e defunti. Non si discute che un governo abbia il dovere di usare ogni mezzo per impedire o frenare il contagio. Sono banalità che si ripetono alla nausea soltanto quando si vuol coprire l’impotenza a svolgere bene proprio tale dovere. Ciò che varrebbe la pena discutere è come si interpreta e si comunica il proprio impegno, quale valore gli si conferisce, in quale prospettiva lo si colloca…. Quanto continui a essere straniero in patria! Ogni energia è spesa a convincerci che è in fondo più comodo lavorare di fronte a un p c che convivere e cooperare “in presenza” con colleghi, amici e magari anche nemici, che quella bella, leopardiana “movida” può essere sostituita con qualche chat, che la pizza è altrettanto buona seduti sul divano di fronte a mamma tv che con gli amici in pizzeria.
Invece di suscitare l’ardente desiderio di fare tutto il necessario per uscire al più presto dalla miseria dell’attuale situazione, la propaganda “in rete” ci vuole convincere che la vita del pensionato è ottima e forse, anzi, ideale. Esageriamo?… Bisogna, credo, insorgere contro questa deprimente narrazione, sintomo di una generale senescenza delle nostre società. Quei pensionati che per primi lottano contro il “pensionamento” e fanno volontariato e si impegnano in tutti i modi perché il loro cervello non vada “a riposo”, dovrebbero essere i primi a esigere che la crisi sia affrontata dal punto di vista e nell’interesse di figli e nipoti. Sotto l’aspetto sociale e economico, anzitutto. Abbiamo infelicitato i giovani (efficace neologismo inventato da un mio caro amico ottuagenario, appartenente a quel 95% di chi non ce la fa contro il Covid) per lo stato di scuola e università, per la disoccupazione e sotto-occupazione, per dover dipendere dalla famiglia fino ai 40 anni e passa – diciamo finalmente di voler uscire dalla pandemia a nome loro, per loro. Diciamo che faremo tutto perché possano giocarsi la loro vita, affrontarne i rischi bene armati, liberandoli dai pesi, non solo finanziari, che abbiamo irresponsabilmente cumulato sulle loro spalle. La vita non è sopravvivere, non è durare. Si parla di eroismo per l’azione di molti in questa tragedia. E allora, se non vogliamo trombettare retorica, si sappia che l’eroe è proprio colui per il quale la vita in sé non ha alcun valore, ma lo guadagna soltanto in funzione dei fini che persegue, di ciò che intende operare, della testimonianza o del servizio che con essa sa rendere.”-
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