Corrado Ocone “Alla ricerca dei “Responsabili” nell’Italia dell’irresponsabilità”

Attualità

Una delle parole più usate, e ovviamente abusate, in questi giorni, è “responsabilità”. Tutti, o quasi, giudicano “irresponsabile” la mossa di Renzi, che invece si è definito addirittura un “patriota”. E “responsabili” sono detti coloro che dovrebbero far convergere sulla maggioranza i loro voti e non far cadere il governo. Che poi nessun pasto sia gratis, e che ciò avverrebbe in cambio di posti e favori, beh… questo passa in secondo piano. L’impressione è che si parli tanto di responsabilità perché mai come in questo periodo ci sono tanti “irresponsabili” in giro. Cosa è successo agli italiani? È definitivamente crollato il tessuto morale della nazione? Dovremmo “rieducarli”? Queste domande penso che un po’ tutti noi “riflessivi” ce le stiamo ponendo. Forse però c’è un errore nel fondo dei nostri ragionamenti, che è quello di legare, con qualche buona ragione ammetto, la responsabilità in senso stretto all’individuo. D’altronde, l’etimologia della parola sta a indicare un “prendersi carico”, o “cura”, da parte di ognuno dell’altro e del “bene comune”. Quindi è un movimento individuale. Tanto che poi, in ambito giuridico, si parla di “imputabilità”, che è appunto l’assegnare o togliere la responsabilità di un reato a un determinato individuo. E, più in generale, si dice che si è responsabili se si riesce a “dar conto” delle proprie azioni (in inglese si usa il termine accountability), cioè giustificarle con argomenti (che sensatamente non dovrebbero essere meramente utilitaristici, come quelli di molti dei “responsabili” di questi giorni, né astrusi, per non dire folli, come quelli di chi annuncia di votare Conte per favorire la “sintesi del glucosio”).

Eppure, se tutto questo è vero, c’è un altro lato della questione che va considerato. Chi decostruisce esplicitamente il concetto di responsabilità, slegandolo sia da quello di individuo sia da quello di libertà a cui solitamente è legato, è stranamente proprio un filosofo di ispirazione liberale, e cioè Benedetto Croce. Lo fa in uno dei suoi Frammenti di etica, quello appunto dedicato alla Responsabilità (il numero XXVIII), fra l’altro pubblicato proprio nel periodo in cui egli teorizzò il liberalismo. Ecco le parole di Croce: “non si è responsabili, ma si è fatti responsabili, e chi ci fa responsabili è la società”. Ovviamente questo non è affatto un “aprire le righe”, come il filosofo napoletano spiega compiutamente oltre. Né, potremmo aggiungere noi, un deresponsabilizzante “è colpa della società”, come argomentavano di fronte a certe cattivi comportamenti i sessantottini (Margareth Thatcher, da parte sua, arrivò a dire che la “società non esiste”). Significa, più banalmente, tener conto del tessuto di relazioni entro cui ci muoviamo e che, se è “malato”, rende difficili anche le buone azioni. Facendo degli “eroi” persone che in altri contesti agirebbero per abitudine in un modo “corretto”, o che comunque sarebbero sanzionati moralmente e da tutti “esclusi” se non lo facessero. Quanti italiani indisciplinati sono diventati più disciplinati degli indigeni quando sin son trasferiti all’estero, nei cosiddetti “paesi civili” (come si diceva e forse erano un tempo gli altri europei)? E, viceversa, quanti stranieri, giunti sul suolo patrio, si sentono autorizzati a commettere ogni sorta di nefandezza, ad esempio vandalizzare le nostre opere d’arte, atti che mai compirebbero a casa loro? È il “contesto ambientale”, che a volte fa la differenza. E quello che in certi Paesi e momenti sembra un atto disdicevole, in altri passa nell’indifferenza o nella rassegnazione del “così fan tutti”. La soglia massima di irresponsabilità, a me sembra, in Italia l’abbiamo già abbondantemente superata. Tanto che le parole non hanno più significato, e noi ormai, senza timor del ridicolo, chiamiamo responsabile anche chi palesemente sta seguendo solo il proprio personale tornaconto. Non sarebbe ora di lavorare un po’ sul contesto, e anche sulle parole?

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