Un anno fa, il 16 aprile, in un giorno di primavera diventato di ghiaccio, ci lasciava Luis Sepúlveda, narratore combattente: ma le sue parole continuano ad accompagnarci sulla strada della libertà e della giustizia, rappresentano la nostra bussola, passo dopo passo, respiro dopo respiro.
La nostalgia ci porta a riprendere in mano i suoi libri, da “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore” a “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” e “Storie ribelli” è sul mio comodino, in compagnia di Pavese e Arpino.
Mi consola una sua frase, diventata, per molti, un manifesto esistenziale: “Solo sognando e restando fedeli ai sogni riusciremo a essere migliori, e se noi saremo migliori, sarà migliore il mondo”. Sono carezze i libri di Bruno Arpaia (“Luis Sepúlveda, Il ribelle, il sognatore, Guanda) e di Ilide Carmignani (“Storia di Luis Sepúlveda e del suo gatto Zorba”, con una poesia e una postfazione di Carmen Yánez, Salani editore). Carmen, la compagna di una vita.
Ritornano i suoi pensieri, il suo “raccontare è resistere”, la forza del suo narrare: “La verità è sempre sovversiva”, “Dare voce a chi non ha voce”, “Scrivo perché credo nella forza militante della parola”. Lucho, come continuano a chiamarlo gli amici e i lettori, ha sempre lottato: contro la dittatura di Pinochet, conoscendo la prigione, la tortura, l’esilio, contro tutte le ingiustizie della terra, al fianco dei più deboli, degli emarginati, degli invisibili e dei fuggitivi, contro la banalità, la presunzione, l’arroganza. A lato dei poveri, degli ultimi: sempre.
Ho avuto la fortuna di incontrare Sepúlveda nel 2003, ad Asti, in occasione di un festival di letteratura. Lo intervistati per Sky Sport, parlando tanto di calcio, una delle sue passioni (giocò, da ragazzo, come attaccante, “ma smisi per amore di una ragazza”). Mi confidò di avere un debole per Mané Garrincha, l’angelo dalla gambe storte (“La rivoluzione sociale in marcia si ferma meravigliata a vedere il signor Mané palleggiare e poi prosegue il cammino”, modulò Vinicius de Moraes), preferendolo a Pelé.
Elogiò il portoghese Eusebio e mi parlò dei suoi idoli: il portiere Lev Jašin per quanto riguardava il football internazionale e il centrocampista Jorge Toro come “stella” di casa. E di provare una profonda stima, per Carlos Caszely, l’attaccante cileno che, fedele ai suoi ideali di sinistra, si rifiutò di stringere la mano a Pinochet.
Nel 1962, quando Lucho aveva dodici anni, seguì il mondiale del Cile in tv: “La mia famiglia non possedeva il televisore e mio padre convinse il padrone del bordello accanto a casa nostra, che ne aveva uno, a ospitare noi ragazzini del quartiere per vedere le partite. Quella fu anche la prima volta che entrai in un bordello. Il mio ricordo: un mucchio di bambini che cantava l’inno nazionale cileno. Davanti alla tv, davanti alle prostitute”. E su Salvador Allende: “Era un sognatore: da lui ho imparato la passione per la vita”.
Sepúlveda tifava per lo Sporting Gijón, la squadra di minatori e di antifranchisti, provando una autentica ammirazione per la Roma allenata da Zeman. E celebrò, nel tempo, altri due tecnici “rivoluzionari”: Marcelo Bielsa e Pep Guardiola.
Ci piace pensare Lucho al fianco di Osvaldo Soriano, altro bracconiere di storie e personaggi: loro due a parlare di socialismo, di Maradona e degli amati gatti. In una notte di luna, dolce e leggera.
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