Lo stop della Corte dei conti al vaccino italiano, l’ennesimo fallimento dello stato imprenditore

Attualità

Col semaforo rosso della Corte dei conti, si chiude la breve storia del vaccino italiano. La magistratura contabile ha deciso di negare la registrazione del contratto tra Reithera (l’azienda incaricata di sviluppare e produrre il vaccino), Invitalia e il Ministero dello Sviluppo economico con tutta probabilità sulla base di motivazioni formali: ma in questo caso, davvero, la forma è sostanza. La delibera, adottata l’11 maggio, non è ancora disponibile (sarà pubblicata entro 30 giorni dall’adunanza). Stiamo alle ragioni di fondo, che sono state anticipate dai giornali.

In pratica, l’operazione concepita dall’ex Commissario straordinario per l’emerganza Covid, Domenico Arcuri, prevedeva in una prima fase l’erogazione di sussidi (a fondo perduto e credito agevolato) da parte del Mise, e successivamente la sottoscrizione di un aumento di capitale da parte di Invitalia. L’istruttoria sarebbe stata condotta proprio da Invitalia, società della quale lo stesso Arcuri è amministratore delegato dal 2007. La Corte dei Conti avrebbe chiesto al Ministero chiarimenti sulla procedura e le motivazioni che avevano indotto a individuare proprio Reithera come beneficiario delle agevolazioni. A queste richieste, il Mise non avrebbe fornito alcuna spiegazione. Perché è stata scelta quell’impresa, e non altre? Siamo sicuro che praticasse le migliori condizioni, per il contribuente? Si è verificato se esistessero altre aziende potenzialmente in grado di offrire la medesima tecnologia, o una migliore? In pratica, la Corte avrebbe richiamato l’obbligo di giustificare perché e come vengono spesi i denari dei contribuenti: avrebbe, insomma, interpretato correttamente il suo ruolo.

Va detto che l’operazione vaccino italiano è parsa da principio mal congegnata (come abbiamo già scritto qui). Secondo i suoi stessi sponsor il preparato non sarebbe stato pronto prima del prossimo settembre, dunque a campagna vaccinale già avanzata. La prima domanda è se non sarebbe stato meglio mobilitare le risorse nazionali (finanziarie e industriali) per rafforzare la capacità produttiva dei vaccini esistenti, anziché impegnarle alla ricerca di un prodotto per ora inesistente. La seconda domanda è di tipo etico: fino a che punto è accettabile coinvolgere le persone nella sperimentazione di un nuovo farmaco, quando sul mercato ne esistono già di alternativi con un’efficacia altissima? A meno di non avere la ragionevole aspettativa di ottenere un risultato ancora migliore, la questione è tutt’altro che marginale. La terza domanda riguarda la governance: messi sotto pressione dalle critiche, i promotori dell’iniziativa tempo fa inviarono una lettera al quotidiano Il Foglio sottoscritta dai vertici della struttura Commissariale (finanziatrice), di Reithera (esecutrice), dell’Istituto Spallanzani (partner scientifico) e dell’Aifa (il regolatore farmaceutico). A che titolo l’Agenzia italiana del farmaco si è pronunciata a favore di un farmaco al momento inesistente, che essa stessa dovrà eventualmente autorizzare alla luce dell’esito dei trial clinici? La quarta e ultima domanda è politica: quanti fallimenti e quanti sprechi bisogna ancora documentare, prima di accettare che lo Stato è un pessimo imprenditore?

Leggi sul sito dell’Istituto Bruno Leoni.

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