Compie 80 anni Bob Dylan, il menestrello-poeta senza tempo

Cultura e spettacolo

Aveva sentito il rombo di un’onda che affonda il mondo intero, aveva di fronte a sé decine di oceani morti, aveva visto una giovane donna il cui corpo stava bruciando, aveva sentito diecimila individui sussurrare e nessuno ascoltare: Bob Dylan era ventunenne quando scrisse i versi di “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”, probabilmente una delle più grandi canzoni di tutti i tempi. Da allora ha registrato centinaia di pezzi, ma basta leggere queste rime – secondo qualcuno si tratta di un dialogo tra Dio e Gesù – per capire perché Dylan sia l’uomo senza tempo. Il 24 maggio, il “menestrello di Duluth”, a cui qualcuno ha rifilato persino il Nobel per la letteratura, compie 80 anni. Ma era poco più che un ragazzo quando vide, in questa canzone, l’apocalisse: qualcuno pensò che parlasse di un disastro nucleare o dell’omicidio Kennedy (che ancora non c’era stato), ma è praticamente impossibile non vedervi i cataclismi di oggi, che siano climatici, pandemici o quel che volete voi.

Le mille identità di un’icona

La verità è che celebrare le otto decadi di Bob Dylan è un esercizio impossibile, forse assurdo. Lo videro comparire, quasi all’improvviso, al Greenwich Village, convinti che avesse stretto un patto col diavolo, e da allora al suo ultimo album “Rough and Rowdy Ways” (uscito pochi mesi fa, secondo alcuni uno dei suoi migliori), il – chiamiamolo così – cantautore ha assunto decine di identità diverse rimanendo al tempo stesso un’icona unica, non paragonabile a nessun altro: il profeta dei diritti civili, il rivoluzionario che regala un’anima al rock, il poeta biblista e poeta ebbro, il rinnegato chiamato “Giuda” dai puristi del folk, l’indagatore delle più profonde radici d’America, il cristiano rinato che sviscera il gospel ed il soul, la rockstar vestita da cowboy che va a cantare per il Papa, il ladro che saccheggia ogni fonte possibile – oscuri romanzieri giapponesi a Shakespeare, passando dal blues del Mississippi – il “vecchio arnese” quasi dimenticato che fa bislacchi film di serie B e intanto scrive capolavori nascosti, l’ebreo errante che riscopre Sinatra per purificare la sua voce in tarda età, la leggenda recalcitrante che non solo non si fa trovare per settimane dall’Accademia di Svezia, ma che in sovrappiù nella sua ‘Nobel Lecture’ estrae dal cappello citazioni di grande intensità biblica – ma inesistenti – da “Moby Dick”. E soprattutto: l’uomo che s’inventò un nome (all’anagrafe fu registrato, nel sideralmente lontano 1941, come Robert Allen Zimmermann), una storia, un destino inafferrabile, una propria mitologia.

‘Blowin’ in the wind’

Ottant’anni da quando è nato, una sessantina da quando apparve in una New York in formidabile fermento, con i localetti folk dove il nostro si impose come una specie di fulmine a cielo aperto, cambiando di colpo tutte le regole del gioco. Cantava già come avesse mille secoli colui che molti anni dopo sibilava che “nessuno canta il blues come Blind Willie McTell” – con ciò intendendo dire che l’autenticità non è qualcosa che si insegna – e già scavava nelle viscere del blues dei campi di cotone, tirando fuori dagli abissi del tempo finanche il suo pezzo più proverbiale, quella “Blowin’ in the Wind” rifatta e ricantata da centinaia di altri artisti, ma originata da un canto degli ex schiavi neri che si erano arruolati nell’esercito yankee ai tempi della Guerra civile.   Oggi il problema è la tentazione di farne un monumento, lui che ha sempre sfuggito qualsiasi forma di celebrazione, di retorica e aspettativa, lui che sin dai primi ‘roaring sixties’ ha rifiutato di farsi incastrare nella casella del profeta impegnato (“It Ain’t Me, Babe”, non sono io quello voi credete che io sia), nonostante il canto alla marcia di Washington a due passi da Martin Luther King, nonostante pezzi entrati nelle ossa del pacifismo come “Masters of War” (oggi sfrenatamente presente sui social media mentre volano i razzi da Gaza e i raid israeliani). Sì, è difficile sottrarsi alla sindrome del monumento, se persino un amico come Leonard Cohen ebbe a dire che “dare il Nobel a Dylan è come dire che l’Everest è la montagna più alta”: appunto, un’ovvietà. Un classico assoluto, come l’amato Shakespeare, come Bertolt Brecht da cui fu influenzato così tanto nei primi anni, come il Petrarca (o era Dante?) evocato in “Tangled up in Blue”, come Omero a cui il “song and dance man” (uomo da canzone e ballo, così ebbe a definirsi) non ebbe difficoltà a paragonarsi quando accettò il contestatissimo premio dell’Accademia di Svezia nell’indignazione di tanti scrittori e poeti titolati.

Nel subconscio dell’Occidente

Il fatto è che i versi, la voce e gli accordi di Dylan sono entrati nel subconscio più profondo dell’Occidente con una pervasività che non ha paragoni: le sue parole – cullate ora da tre lucidi accordi di folk, ora da un ruvido blues, ora da uno sghembo swing – sono tra le più citate in assoluto, le più proverbiali, quelle che accompagnano le nostre scelte, i nostri dubbi, i nostri amori, le nostre paure. E da molto tempo è un fenomeno che va ben oltre la “rock revolution” degli anni Sessanta. Per esempio: “Love Sick”, fine anni novanta, con quel verso in cui “anche le nuvole piangono”, è una struggente confessione d’amore trasformata in una tempesta elettrica dai White Stripes. Per esempio: dopo che Adele, la popstar britannica, aveva inciso la sua “Make You Feel My Love” del 1997, e poi la sentirono cantare da Dylan tanti si ritrovarono a dire “ma guarda questo Dylan, quant’è sportivo a fare una cover di Adele”, non capendo che era vero il contrario. Delle centinaia di altre cover neanche a parlarne, dalle versioni gospel dei musicisti afroamericani a Elvis Presley passando per la versione punk di “My Back Pages” dei Ramones fino alla “Knocking on Heaven’s Door” dei Guns & Roses.  Tutto questo basterebbe per dire che Dylan è una specie di tempio del passato. In realtà, per quanto possa sembrare incredibile, Dylan è molto di più: Dylan è un vortice. Se volete, di contraddizioni, di paradossi. Un moltiplicatore di significati, oltreché di storie. Un uomo che contravviene sistematicamente le aspettative dei suoi ascoltatori ma anche dei suoi detrattori, che cambia continuamente il suo “thin, wild mercury sound”, di album in album. Sono decine le canzoni stranamente escluse dai dischi ufficiali, che riemergono anni dopo e s’impongono come classici (tra le varie “Blind Willie McTell”, “Series of Dreams”, “Dreamin’ of You”, “Dignity”). Nel frattempo escono una dopo l’altra le “Bootleg Series”, raccolte infinite di materiale alternativo o inedito, tra cui le sorprendenti collaborazioni nel segno del più limpido country con Johnny Cash oppure il capitolo dedicato alle registrazioni senza fine con tale George Harrison al suo fianco, pubblicato solo qualche settimana fa.

Un vortice

Un vortice, appunto, una galassia di suoni e storie con cui non si finisce mai di fare i conti, perché rifugge dalle verità comode tenendoti legato a doppio filo alla complessità, in cui si confondono il passato – il carico della tradizione musicale, sociale e letteraria dell’America profonda – e la molteplicità della cultura pop. E che vale svariati vari fantastiliardi, come dimostrato l’anno scorso quando venne fuori che Bob aveva venduto i diritti delle sue canzoni alla Universal per, così pare, 300 milioni di dollari, mentre l’Università di Tulsa, in Oklahoma, si è reinventata come centro mondiale degli studi dylaniani grazie alla presenza in loco dei Bob Dylan Archives, che raccolgono seimila tra registrazioni, memorabilia, taccuini, abiti, oggetti di ogni tipo. Poi simposi, poderose tesi di laurea, festival organizzati in suo onore ad ogni angolo del mondo, persino film come quello di Todd Haynes, dove Dylan viene incarnato da sei diversi attori.  Ebbene sì, ognuno trova il suo pezzo di Dylan, che squarcia altre esistenze, altri mondi. Se scorrete i commenti sotto il video di “Shelter from the Storm” su YouTube leggete con attenzione le parole scritte due anni fa da un anonimo utente a corredo dei versi “Lei venne verso di me con tanta grazia, e prese la mia corona di spine… entra, disse, ti darò un riparo dalla tempesta”. Ebbene, aggiunge l’utente, “questa cosa viene direttamente dalla mia esperienza di vita dopo la guerra in Vietnam: una giovane donna adorabile, generosa e comprensiva mi salvò la vita. Ci siamo persi, ma la amo ancora, 47 anni dopo. E, ovviamente, amo questa canzone”.

Il canto di una ragazzina olandese

Oppure la “Blind Willie McTell” da brividi cantata da una ragazzina olandese di nome Rosmarijn, al saggio di chitarra della sua scuola di musica, che non era nata né quand’era stata composta quella canzone, né quando Dylan aveva lanciato la sua conquista ai locali del Greenwich Village. È lì che capisci che Dylan è materia viva, lo è nelle mani di chiunque, a qualsiasi latitudine ed età. Come “Moby Dick”, come “Don Chisciotte”, come la Divina Commedia cantata nei secoli dai contadini toscani.  “Io contengo moltitudini”, sibila Bob in una delle sue ultime canzoni citando Walt Whitman. Nel dolore, nell’apocalisse, nella speranza: perché aveva anche incontrato una bambina che gli regalava l’arcobaleno, il ragazzo senza tempo chiamato Dylan, quando sessant’anni fa sulla terra dei peccatori cadeva la “dura pioggia”.

(AGI)

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