Cinquantasei anni fa, in quel film-manifesto che fu “I pugni in tasca”, la famiglia per Marco Bellocchio era il luogo fisico e metaforico della rabbia e della rivolta. “Allora – dice il regista – i miei capirono in ritardo che parlavo di loro e di me”. Oggi la famiglia è il luogo in cui rintracciare emozioni censurate e sepolte, per condividere e capire – senza tribunali, con leggerezza e serenità – le assenze anche colpevoli che agli sgoccioli del ‘rivoluzionario’ 1968 fecero maturare il suicidio del gemello di Marco, Camillo.
Sabato la cerimonia di chiusura del Festival vedrà assegnare la Palma d’oro d’onore a Bellocchio, che in mezzo secolo qui è stato premiato solo con la doppia Palma a Michel Piccoli e Anouk Aimée per “Salto nel vuoto”. Ma già da oggi è in sala in Italia “Marx può aspettare”, che ha appena ultimato e domani sarà sugli schermi di Cannes. Un documentario di cui Camillo è il protagonista assente, ma che non somiglia a nessun documentario conosciuto. “In un certo senso è il mio film più privato, quello in cui mi sono sentito leggero, sereno, completamente libero, ma non assolto”, dice l’ottantunenne Maestro di Bobbio.
“Marx può aspettare” fu la risposta di Camillo al fratello gemello che, nel loro ultimo incontro, voleva convincerlo che la redenzione dall’infelicità che lo attanagliava stava nella lotta rivoluzionaria. “Nel mio percorso c’è sempre qualcosa di religioso – ricorda Bellocchio – e allora avevo aderito per breve tempo a un movimento che aveva sostituito Dio con Mao Tse-Tung, l’Unione dei Comunisti marxisti-leninisti”. Nel film è più esplicito: “Gli avevo detto quattro c.. rivoluzionarie”. In quella risposta, in quel dire che la politica viene dopo, “c’era tutta la verità della sua sofferenza, significava ‘prima devo risolvere le cose mie’”.
Marco era già un autore premiato a Locarno e a Venezia. Il fratello maggiore, Piergiorgio, era il guru di “Quaderni piacentini”, rivista-culto della sinistra. Alberto lavorava nel sindacato. Camillo era rimasto indietro, smarrito nell’ombra, cercava un futuro senza trovarlo. Un pranzo di famiglia nel dicembre 2016, con i fratelli superstiti, le sorelle Letizia e Maria Luisa, mogli, figli e nipoti, è l’aggregante del film. “Mi sono reso conto che era l’ultima occasione per fare i conti con una rimozione: quando accadde, la nostra urgenza fu di fare barriera per proteggere nostra madre”. Ma ognuno ha la sua verità: è un “Rashomon” degli affetti, supportato da amici di casa e testimoni diretti, tra gli altri Padre Virgilio Fantuzzi (“Ha sempre cercato di convertirmi- dice il regista- ma io l’ho sempre ascoltato con molto amore”) e la fidanzata di Camillo.
Il primo titolo scelto era “L’Urlo”, da Munch. “Poi ho capito che la misura giusta era questa, leggera e tragica, come il senso del film”. Quante volte la cronaca dà conto di fragilità devastanti dietro esistenze in apparenza ‘normali’? Ha bisogno di raccontare la sorella Letizia, sordomuta, che trova la forza di esprimersi con uno spirito ”direi quasi bellocchiano”, dice autoironicamente il regista. Le sorelle, credenti, si aggrappano alla speranza di un ‘incidente fatale’, di una morte non scelta. Ma nell’Aldilà non sono i Santi, sono Camillo, la mamma e il padre che sperano di ritrovare.
Dice Bellocchio che la sua storia da cineasta “è una sorta di avvicinamento a quella vicenda lontana.” Stralci da “I pugni in tasca”, da “Gli occhi, la bocca”, da “L’ora di religione”, in questa luce, sono rivelatori. “Ho capito perché nei miei film sono tanto presenti i suicidi. Di “Gli occhi, la bocca”, non sono mai stato contento, perché sentivo troppe presenze, in primis quella di mia madre, sfiancata da otto figli da tirare su, con Paolo, ‘il matto’, a urlare giorno e notte per casa”. EpppureLou Castel, fervente marxista-leninista, che nel film non credeva, trovò lacrime vere per recitare quella battuta intrisa di corresponsabilità consapevole, di senso di colpa, che “Marx può aspettare” ritrova.
C’è un’onestà disarmante a rendere questo scavo autobiografico universale. Non c’è la retorica di ritorno che affligge tanta nuova produzione italiana. Non ci sono furbizie di regia. Ci sono invece il montaggio determinante di Francesca Calvelli e le musiche del perduto Ezio Basso, vera “traccia emotiva”. Ancora una volta, una lezione di cinema ‘altro’, da un regista che non ha paura di misurarsi, ora, con una serie tv.
“Siamo accecati dalla nostra coscienza”, diceva Godard. La coscienza opera spesso per rimozioni. Insieme, a volte, si può percorrere il cammino inverso.
- Blog Teresa MarchesiCritica cinematografica e regista
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