Qualcosa non torna sull’Afghanistan. È stato classificato come uno dei paesi più pericolosi del mondo in assoluto (l’informazione nel frattempo disperatamente si strappa i capelli per i diritti violati delle donne). Nei vent’anni di guerra e occupazione americana ha avuto 40mila morti civili, con picchi annuali di 6mila decessi, più di attentati suicidi e di mine che di guerra guerreggiata (dei cadaveri non si parla, solo delle cattive sorti di cantanti, registe e giornaliste). Tra discontinue guerre civili ed invasioni gli anni di combattimento si fanno quaranta, dal ’79, con il risultato di 30 milioni di mine disseminate nei 650 kmq del paese.
Solo il vicino Tagikistan ha passato un periodo di scontri civili simili, per un tempo assai più breve (mai sentito nessuno preoccuparsi delle donne tagike). Così il panorama afghano tra resti storici e grandi scorci naturali è orribile, reso mostruoso dalla concimazione di resti di tank, razzi, fusoliere, proiettili, bombe e giocattoli colorati (i famigerati pappagalli verdi), sorta di lattine molotov sotterrate a pochi cm di terra, pronte a esplodere nella serie di pascoli e paesini fantasma, residui di fattorie, di allevamenti, di santuari (non compaiono mai testimonianze di afghane zoppe, né di afghani ad una gamba). Sono poverissimi gli afghani, con $20 miliardi di Pil, tra i più poveri del mondo (con le riserve di dollari, depositate all’estero e bloccate) ma sembra che si nutrano di diritti umani. Forse, ma c’è da dubitarne, li trovano nei paesi dove sono emigrati finora, il Pakistan che ne ospita 1,9 milioni, la Persia che si occupa fattivamente di altri 780mila, la Turchia che ne trattiene mezzo milione. In due milioni sono emigranti interni perlopiù in campi nei pressi della capitale (dove l’informazione era preoccupatissima per i rischi di contagio Covid soprattutto ai danni delle bambine). Ed ora sono sei milioni gli afghani che vorrebbero andarsene, mentre il paese non sa e non può sfruttare tutte le materie prime più preziose che possiede nel sottosuolo, senza una via di sviluppo, che sia legale.
Ha però un suo primato economico, guerra o no; è il primo paese al mondo per produzione di eroina e oppio. Lo testimonia il bel numero di tossicodipendenti, ca. due milioni, soprattutto nelle province meridionali di Kandahar e della piccola provincia talebana di Helmand. Mezzo milione di contadini sono arrivati a produrre su 224mila ettari, di 21 province su 34, ben 10 mila tonnellate di papavero da oppio, in crescita del 37% nell’ultimo anno, per 150 miliardi di dosi. per l’85% del mercato mondiale e 10 miliardi di revenues (qui l’informazione è veramente carente, non avendo portato al microfono, né una drogata afghana, né una contadina, magari con il casus della donna cacciata dal lavoro nei campi). Il papavero prima veniva coltivato soltanto, ora viene anche raffinato, con due milioni di addetti complessivi, per l’export, via Iran e Balcani, in Europa, e via Pakistan, in America. C’è anche l’export della metanfetamina dall’efedra sinica, ma solo in Iran, dove la droga danna i muezzin.
L’occupazione Usa ha fatto bene al business ed in 20 anni le coltivazioni di oppio sono aumentate del 340%, a parte la flessione tra 2008 e il 2011; mentre il programma governativo di contrasto all’oppio, costato agli americani ca. $9 miliardi, ha raggiunto risultati risibili, l’equivalente del 5% della produzione di un solo anno, posto sotto sequestro in un decennio. Addirittura, il miglioramento delle irrigazioni ha migliorato la resa dei papaveri. Proprio un trionfo della domanda dei mercati occidentali che possono ringraziare sia i talebani che controllavano il 40% del territorio afgano, quello della coltivazione, ma anche le coperture governative e degli occupanti. In caso di investimenti cinesi, gli afghani li potranno ripagare in panetti che i figli del celeste comunismo sapranno ben distribuire in Occidente (la produzione e l’uso di droga però non preoccupa, forse rientra tra i diritti).
Quello che sorprende di più è però il numero della popolazione. L’Asia centrale stan non è troppo popolata. Cento milioni di centroasiatici fanno da cuscinetto tra Russia, Cina, India e Persia. In 18 milioni abitano l’enorme Kazakhstan, in 6 il Turkmenistan, in 27 l’Uzbekistan, in 6 il Kirghyzistan, in 7,5 il Tajikistan. Anche l’Afghanistan aveva 9 milioni di abitanti, fino al ’79. All’arrivo degli americani nel 2001 gli afghani però erano già 21 milioni. Ed ora dopo vent’anni di occupazione americana sono 38 milioni, con un tasso di prolificità incredibile, 5 figli di media cadauna, che fino a pochi anni era di 8 figli. Un dato impressionante ed in controtendenza con il resto del mondo che quasi dovunque non raggiunge il tasso di sostituzione.
Verrebbe da pensare che la guerra faccia bene alla prolificità e sostituisca largamente le perdite, soprattutto delle missioni suicide. Oppure che la prolungata presenza straniera istituzionale, ben oltre Emergency, abbia decisamente sconfitto la natalità infantile. Al contrario delle ex repubbliche asiatiche sovietiche dove l’indipendenza ha intaccato sanità e istruzione. Cosa induce le afghane a mantenere tassi di natalità ottocenteschi? L’arretratezza? Gli stupri maschili? L’ubbidienza? Il fenomeno delle spose bambine? L’inviato del Guardian, Steele nel suo Ghosts of Afghanistan, ricorda qualcuna delle leggende delle news sul paese, come per esempio l’oppressione talebana delle afghane.
Tutti i gruppi etnici del paese fanno storicamente queste discriminazioni, come il rurale baad, l’offerta di una donna come riparazione della tribù verso l’altra offesa. I mujaheddin nei ’90 censurarono cinema e tv, cacciando le annunciatrici con metodi considerati da talebani. Si tratta di tendenze presenti in tutta l’area stan, fermata solo dalla mentalità laica già comunista, rimasta grazie all’uso del russo lingua franca. Se gli zaristi fossero andati oltre l’emirato di Bukhara nel 1873, allargando il protettorato all’emirato afghano di Dost Mohammad, non ci sarebbe oggi il dramma del paese perché quella russa è stata una colonizzazione di popolamento. D’altronde però, gli afghani non sarebbero tanto numerosi, né le afghane farebbero notizia.
E l’informazione non avrebbe le sue papere ed i suoi papaveri.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.