«L’Ambrogino negato era per esuli e infoibati» Il testimone delle foibe: «Mai ci perdoneranno di aver detto “no” al paradiso in terra di Tito»
Piero Tarticchio, lei sa che il Comune, negli organismi consiliari di Palazzo Marino, ha deciso di non assegnarle l’Ambrogino d’oro cui era candidato. «Sì, lo so. Non è che sia deluso o cose del genere. Io non ho mai chiesto né ottenuto onorificenze di nessun genere e non mi è mai stato conferito alcun attestato di benemerenza per tutto il lavoro che ho fatto durante la mia vita in difesa dei diritti e della memoria di quella che è stata, ed è ancora, la mia gente».
Scrittore, giornalista, artista, Piero Tarticchio è nato nel 1936 a Gallesano, 5 chilometri da Pala. La sua famiglia fu devastata dalla pulizia etnica e politica perpetrata dai comunisti di Tito. A 7 anni partecipò col padre al funerale dello zio, Don Angelo, seviziato, ucciso e infoibato. Un anno e mezzo dopo, la stessa sorte toccò al padre, un commerciante. Piero aveva 9 anni quando fuggì di notte con la madre (…) (…) durante un temporale. Da allora non ha mai smesso di raccontare. Ha ricostruito la sua vita a Milano, città che in passato ha accolto molti esuli istriani e giuliani, mentre Palazzo Marino sembra riconoscere a fatica questa storia dolorosa di italiani. Quel «no» pare uno sfregio non tanto alla sua persona, quanto agli infoibati e agli esuli, quelli che per Indro Montanelli erano i migliori fra gli italiani.
«Sì, italiani due volte, per nascita e per scelta. Cosa posso dire sull’Ambrogino? Posso solo dire che mi dispiace, anche perché ormai faccio parte di questa terra lombarda, nella quale sono nati i miei figli. Ho perduto la mia terra e le mie origini, la conservo come tali nel mio cuore, ma finché avrò un anelito di vita cercherò di ricordare il martirio che abbiamo patito al termine della guerra con le foibe e l’esodo». Ricordare era proibito. «Ci sono stati 57 anni di oblio e indifferenza. All’inizio si è negato, quando non era più possibile si è giustificato coi crimini dell’Italia fascista, come se noi ne fossimo i responsabili. Oggi si parla di riduzionismo. Ma cosa ne sanno i negazionisti del dolore della gente che ha vissuto quegli eventi nella forma più tragica, vedere propri parenti sparire e non tornare più? lo non mi sono schierato politicamente, anche l’Anpi mi ha chiamato e ho parlato da uomo libero».
Milano finalmente ha un monumento dedicato a questa storia. «E lei non ha idea di cosa sia diventato, per noi, quel monumento. Quel pezzettino di Milano è diventato un pezzo di Istria. È lì che ogni tanto vado a pregare e vedo spesso dei mazzi di fiori. È una sorta di pellegrinaggio che facciamo per ricordare l’ingiustizia e l’oblio che abbiamo subito. Lì possiamo ritrovarci. Per noi, è come se fosse un sacrario». Un sacrario? «Vede, dopo tutti questi anni io non so ancora dove siano i poveri resti di mio padre. Nessuno è mai andato giù a prendere tutti quei corpi per seppellirli in terra consacrata. Solo i pompieri di Pala hanno portato su 245 salme da due o tre foibe. Quando sono tornato in Istria ho sempre lasciato dei fiori nella tomba più disadorna di tutto il cimitero, come se fosse la sua. Ora non so quando potrò tornare, le mie gambe non sono più quelle di una volta, ma posso pregare lì in piazza della Repubblica».
Com’è stata la vita degli esuli? «Crescere tra difficoltà di vario genere spesso tempra la volontà di chi vive in ristrettezze. Qualcuno mi ha consigliato di dimenticare, lasciar stare, ma io non volevo né dimenticare né arrendermi. Ho duplicato le forze per reagire». La memoria. «Sono riuscito a scrivere un ultimo libro, un racconto in forma di diario su quel che accadde allora con l’arrivo dei titini in Istria, la sparizione di mio padre, e mia madre che lo cerca. Non parlo di me, è un diario scritto pensando ai giovani, e conservando il ricordo di mio padre, che è sempre stato con me».
Pensa spesso a quei fatti di quando ero bambino? «Ogni tanto sogno quella notte in cui scappai con mia madre. Quella notte fummo graziati dal Padreterno che mandò un temporale furioso, che forse allentò i controlli, consentendoci di scampare ai mitra passando sotto ai reticolati. Fu la nostra salvezza. Mia madre rischiava ormai di essere internata in un campo e io in un centro di rieducazione comunista che mi avrebbe lavato il cervello dai primi insegnamenti di famiglia, compreso l’afflato per l’Italia». Non c’è odio nelle sue parole. «No, e mia madre mi ha insegnato a non odiare. Noi abbiamo subito menzogne e infamie. Tito, per balcanizzare quelle terre, aveva bisogno che se ne andassero gli italiani. Noi siamo scappati ma per sopravvivere. Per paura, non per fede o per codardia. Ma ci bollarono come reazionari o fascisti, e non era vero». Avevate soltanto la «colpa» di essere italiani. «Se sarò ancora vivo, forse quell’Ambrogino sarà consegnato il prossimo anno. Chissà. Ma il problema è che a noi non hanno mai perdonato una cosa: non ci perdonano d’aver lasciato il paradiso in terra di Tito».
Alberto Giannoni (Il Giornale)
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