La corsa al Quirinale si sta delineando in queste ore. Non parlo dei nomi, ma dei temi. Quella precedente, nel 2015, incarnava l’idea che il PD doveva avere di se stesso. Un PD con i numeri per fare qualsiasi cosa che uccideva il suo padre nobile e ripiegava sul saggio avo. Userei il termine nonno, ma non vorrei apparire sprezzante. Mattarella era una figura, e lo è tutt’ora, ieratica e patriarcale. Il custode di un mondo che non c’è più. Prodi era il successore. Si è preferito un profilo meno partitico. Ha perso la politica di militanza, ha vinto la saggezza del mondo che non c’è più.
Nel 2006 Giorgio Napolitano era lo sdoganamento del PCI, nella sua ala meno compromessa, come forza di potere. Un protagonista politico del 900 che si spogliava della sua storia per divenire arbitro dei destini della nazione. La sua rielezione, l’imposizione del patriarca depurato della livrea. Insomma, c’è un tema ricorrente: da Scalfaro in poi il Presidente della Repubblica è un politico (eccezione Ciampi, ma fu un compromesso necessario dati i numeri) che ascende ad un ruolo di ricomposizione delle lacerazioni sociali. Questo modello, va detto, ha funzionato. Negarlo sarebbe irresponsabile. Cosa succederà a fine gennaio quindi?
Esistono due scenari: uno scenario alla Ciampi, la sinistra non autosufficiente elettoralmente imporrà al centrodestra una figura di compromesso non indigesta. Oppure uno scenario alla Napolitano. Berlusconi, che lascia indietro la livrea azzurra ed incarna la nazione. Questa scelta, per il Parlamento, non è tranquilla. Stavolta il peggior Parlamento della storia dovrà scegliere tra due cose ben distinte. Ammettere irrimediabilmente la propria incompetenza delegando la carica più alta della Repubblica ad un banchiere. Un altro. Oppure scegliere un ultimo guizzo di dignità. E decidere che la politica, in questo paese, ha ancora un peso.
Vedete, è davvero una scelta storica. Lo so che si dice sempre, stavolta è però davvero così. Scegliere Silvio Berlusconi, il più amato, il più odiato, l’erede di se stesso, il padre, l’imprenditore, lo sportivo, il politico e sì, l’eternamente indagato dal sistema Palamara, il nemico di Travaglio e la nemesi dei benpensanti di ogni continente, sarebbe uno scatto d’orgoglio. Sarebbe la speranza di un popolo di poter scegliere il proprio futuro, senza farselo dettare da grigi burocrati, segreterie internazionali e Marco Travaglio. Sarebbe la certezza che, comunque vada, il nostro futuro si decide a Roma.
Anche i duelli sotto questi due nomi vivono la stessa narrativa. Cartabia contro Casellati. Amato contro Pera. Ma sono scontri, non ce ne vogliano gli stimatissimi protagonisti, in sedicesimi. La vera battaglia è Draghi contro Berlusconi. O meglio, perché serve essere serie e precisi nelle analisi, tra il suicidio di una classe politica che ha prima dichiarato la propria impotenza con il Conte 2 e il Draghi 1 e poi, inevitabilmente, la propria inutilità, con il taglio dei Parlamentari, e la sua riscossa. La redenzione finale. Iniziata con lo sprezzante sberleffo ai Ferragnez sul DDL Zan. E che potrebbe culminare nel pernacchio a Travaglio. Come diceva De Filippo, con un pernacchio si può fare una rivoluzione.
Laureato in legge col massimo dei voti, ha iniziato due anni fa la carriera di startupper, con la casa editrice digitale Leo Libri. Attualmente è Presidente di Leotech srls, che ha contribuito a fondare. Si occupa di internazionalizzazione di imprese, marketing e comunicazione,