Foibe: i comunisti che votarono contro l’istituzione del Giorno del ricordo

Attualità

Il Giorno del Ricordo è stato istituito per legge, la numero 92 del 30 marzo 2004. Oggi che compie 18 anni è bene fare un tuffo prima nel passato recente e poi in quello più remoto, fino ad arrivare a comprendere cosa s’intende quando si parla della istituzione della giornata per mai dimenticare l’eccidio per mano comunista ai danni degli italiani della Venezia Giulia, del Quarnaro, della Dalmazia. Il governo Berlusconi portò finalmente in discussione il testo di una proposta di legge la cui struttura embrionale venne presentata per la prima volta nel 1995. Quando l’11 febbraio 2004, ci fu la votazione finale, in quindici votarono contro. Per meglio capire cosa ricordiamo oggi, e perché, è opportuno ricordare chi furono quei quindici:

Marco Rizzo, comunista innamorato di come vanno le cosa in Corea del Nord e del dittatore nordcoreano Kim Jong-il;

Armando Cossutta, ex leader dei comunisti italiani, incontrastato capofila dell’ala di sinistra interna “prosovietica” del partito, denominata per l’appunto cossuttiana, che parlò di “revisionismo pericoloso”;

Maura Cossutta, figlia del partigiano di cui sopra e che fu collaboratrice del Ministero della Sanità occupato da Livia Turco, la quale le diede l’incarico di revisionare le linee guida della legge sulla procreazione assistita, ossia la legge 40;

Elettra Deiana, feroce femminista;

Oliviero Diliberto, tra i fondatori del Partito dei Comunisti Italiani, voleva portare la salma di Lenin a Roma;

Alfonso Gianni, militante del Partito di Unità Proletaria per il Comunismo e poi del Pci;

Francesco Giordano, fondatore de Movimento per la Sinistra con Nichi Vendola;

Cosimo Sgorbio, tra i fondatori di Rifondazione comunista;

Ramon Mantovani, famoso per aver trasportato in Italia dalla Russia il terrorista curdo Abdullah Öcalan, leader del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan);

Giuliano Pisapia, ex Rifondazione Comunista, sarà sindaco di Milano da indipendente di sinistra;

Graziella Mascia, di cui si ricorda solo il rancore contro la polizia per i fatti del G8 di Genova;

Giovanni Russo Spena, noto per aver dichiarato pubblicamente la sua solidarietà al terrorista brigatista Cesare Battisti;

Tiziana Valpiana, passata alla storia per aver fatto cadere il governo Prodi – per un solo voto – , nel 1998;

Nichi Vendola, il comunista che spese nel 2016, almeno 140mila dollari per comprarsi il figlio con la maternità surrogata;

Titti De Simone, parlamentare per Rifondazione comunista e che fonderà Arcilesbica.

Quindici parlamentari non vollero onorare la pulizia etnica subita dai connazionali. Ma non gli si può dar torto per aver semplicemente preso a modello la lezione di Sandro Pertini. Il presidente adorato e mitizzato. Il santo laico che nelle foto storiche vediamo mentre alza al cielo la coppa del mondiale del ’82. Pertini fu presidente della Repubblica dal ’78 al ’85, e negli anni ottanta, la tragedia delle foibe era un ricordo freschissimo.

Striscione Foibe esposto a Senigallia

Ma parlarne significava imbrattare la memoria sacra dell’ideologia della Resistenza, la storiografia comunista-partigiana. Parlare di esodo istriano significava essere bollati, in ogni ambiente, come fascisti e revisionisti, eppure non c’era nessuno che non sapesse cosa fosse accaduto nel dopo guerra agli italiani della Venezia Giulia, del Quarnaro, della Dalmazia.

E quando nel 1980, il comunista Tito muore, il presidente Sandro Pertini anziché restarsene al Quirinale, andò a rendergli omaggio. Forse proprio lui s’era perso i 350mila esuli e i 16mila infoibati da Tito tra il ’43 e la fine degli anni Cinquanta? Pertini rese omaggio a chi aveva macellato il suo popolo e lo fece baciando persino il suo feretro e la bandiera nel quale era avvolto.

Fu al presidente Napolitano che toccò più di tutti celebrare la Giornata del Ricordo – proprio lui, il comunista che aveva sostenuto i carri armati sovietici contro gli ungheresi nel 1956. Parlò di foibe sempre con tono pacato, fino al 2012, quando per ricordare la strage comunista se la prese con “le derive nazionalistiche europee”, attribuendo a esse l’eccidio di migliaia di istriani, dalmati e dei partigiani bianchi.

E intanto sono 18 anni che ci sentiamo ripetere, quando si deve parlare di foibe, che “la memoria non ha colore politico e le vittime non hanno bandiere”. La verità è che la storia è sempre a colori. E la storia delle foibe, ha il colore rosso dei feroci comunisti di Tito, responsabili della pulizia etnica di uomini, preti, donne e ragazzini con la sola colpa di essere italiani. Rosso come il colore delle bandiere della Cgil e del Pci che alla stazione di Bologna presero a sassate il treno che nel febbraio del 1947 trasportava gli esuli del quarto convoglio marittimo di Pola; sputarono contro i loro connazionali e buttarono sulle rotaie il latte destinato ai bambini in grave stato di disidratazione e il cibo nella spazzatura.

Ed oggi (ieri ndr) che la Giornata del Ricordo compie 18 anni, è bene anche scattare una fotografia che riassuma davvero quello che accadde dopo la guerra. Quale sarà il confine tra l’Italia e la nuova Jugoslavia? Nella primavera del ’45, il problema è aperto e le difficoltà a raggiungere un accordo fanno emergere con tutta evidenza la correlazione tra controllo politico e controllo militare.

Il comunista Josip Broz – nome di battaglia maresciallo Tito – guida il gruppo jugoslavo allo scopo di estendere alle città e alla fascia costiera il controllo che già esercita in parte delle zone interne: si dirige direttamente verso Fiume, l’Istria e Trieste. L’esercito jugoslavo insedia i Comitati popolari di liberazione – che assumono il potere politico-amministrativo e i cui membri sono quasi tutti slavi, con l’eccezione di alcuni italiani “di provata fede comunista”. Le indicazioni operative sono chiare: occupare per primi, bandiere slovene e jugoslave, non permettere manifestazioni italiane, rinforzare l’Ozna – la polizia politica partigiana jugoslava ed “epurare subito” la popolazione autoctona. Fu così che gli italiani furono costretti ad abbandonare casa. Perché quello degli italiani non fu un esodo, ma “un’espulsione di massa”.

Come scrisse Theodor Veiter, noto studioso di diritto internazionale, secondo la moderna definizione di diritto dei profughi. Chi non fuggiva, infatti, veniva esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica, religiosa che lo rendeva senza patria nella propria patria d’origine. Gli italiani non compirono la scelta volontaria dell’emigrazione, ma vennero espulsi dal proprio Paese. E poi ci fu la pulizia etnica operata con le foibe. Quei crepacci naturali, imbuti che sprofondano nelle voragini della terra fino a 200 metri. Come un grattacielo che finisce a testa in giù e si sviluppa nel buio della terra. Era la maniera comunista di far scomparire le prove dei crimini, ma anche qualcosa dal profondo valore simbolico: gettare un uomo in una foiba significa trattarlo come un rifiuto.

Quasi nessuno si piegò al comunismo slavo. Furono tanti gli italiani a morire nei campi di lavori e tanti altri subirono esecuzioni meno plateali, come qualche sacerdote sgozzato in canonica. in 350 mila furono costretti all’esodo, in 16 mila (la stima degli storici è molto approssimativa) vennero infoibati. Siamo un Paese strano, un Paese che non vuole ricordare. La cultura marxista-leninista che ha invaso ogni sospiro culturale in questo paese, e ha riscritto i libri di storia, ha finito con il demolire quel poco di identità nazionale che avevamo, già prima del periodo fascista.

Lorenza Formicola (blog Nicola Porro)

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