Oltre 8 realtà su 10 nel primo trimestre 2022 hanno almeno un dipendente in smart working, per un numero di dipendenti coinvolti pari al 22% del totale. La percentuale risulta più elevata tra le imprese dei servizi, 91%, a fronte del 79% rilevato nell’industria, e nel comune di Milano, 90%, rispetto al 78% rilevato nell’hinterland. Sono questi i principali risultati della rilevazione del centro studi di Assolombarda che ha coinvolto più di 250 imprese milanesi del manifatturiero e dei servizi avanzati. Lo studio completo è pubblicato sul magazine Your Next Milano
“Lo smart working negli ultimi due anni è un modello organizzativo che ha visto una forte accelerazione ed è oggi entrato a far parte della cultura aziendale diffusa – ha dichiarato Diego Andreis, Vicepresidente di Assolombarda con delega a Politiche del lavoro, Sicurezza e Welfare –. Nel 2021 Confindustria, insieme alle organizzazioni sindacali, ha sottoscritto il Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile, con lo scopo di fissare le linee di indirizzo per la contrattazione collettiva nazionale, aziendale e/o territoriale. L’intento, quindi, è stato quello di promuovere lo smart working offrendo alle imprese un quadro di riferimento a riprova del fatto che il bilanciamento vita-lavoro è da sempre uno dei valori al centro delle nostre pratiche quotidiane. Quando finirà il periodo di emergenza che ha condizionato il ricorso diffuso allo smart working, pertanto, non ci troveremo impreparati. Ne è prova l’analisi effettuato da Assolombarda su un campione di accordi sindacali sottoscritti da imprese associate aventi oggetto lo smart working che – ha sottolineato Andreis- evidenzia come, già in epoca pre-pandemica, a livello aziendale erano già state concordate regole di gestione efficace dello strumento, successivamente riprese dal Protocollo nazionale. L’autonomia contrattuale delle Parti sociali, dunque, continua a costituire un valido framework su cui poter incardinare il futuro del lavoro, che si giocherà su flessibilità, skill, formazione continua, forme contrattuali e tutele”.
A due anni dall’inizio della pandemia la diffusione del lavoro da remoto in forma strutturale o per esigenze legate all’emergenza è infatti molto superiore al passato. Basti pensare che nel 2019 solo 3 imprese su 10 ricorrevano al lavoro agile e la percentuale di lavoratori in smart working era del 15%. Il 63% delle imprese milanesi che hanno risposto al sondaggio, prevede di attivare lo smart working in maniera strutturale nel futuro, una percentuale in linea con il 65% di aziende che, nell’autunno 2020, prevedeva l’utilizzo del lavoro da remoto anche nel post-pandemia. Al momento lo smart working d’emergenza è prorogato fino al 31 agosto 2022. Tra le imprese di Assolombarda nell’area di Milano, Monza Brianza, Lodi e Pavia che hanno introdotto lo smart working in modo strutturale la quota di smart worker raggiunge il 27%, con punte del 43% nei servizi rispetto al 17% dell’industria: una percentuale di lavoratori superiore non solo al 15% pre-Covid, ma anche al 22% dei primi mesi del 2022 (che in parte include ancora la modalità di emergenza). Le strategie di chi ha adottato lo ‘Smart Working 2.0’
Nelle aziende che hanno introdotto strutturalmente il lavoro da remoto, la compatibilità delle mansioni è quasi sempre la condizione di accesso prioritaria allo smart working (96%), seguita dall’adeguatezza della connessione (62% delle aziende). Meno rilevante è l’appartenenza ad aree aziendali predeterminate (42%), segno di una crescente consapevolezza che la possibilità di lavoro da remoto è legata al lavoro specifico più che alla collocazione funzionale. Infine, 1 azienda su 4 vincola la possibilità di smart working alla frequenza di un corso di formazione mirato. L’attenzione alla formazione, in particolare a quella per la sicurezza – al di là di quella obbligatoria – e a quella dedicata ai manager, emerge anche con riferimento agli investimenti necessari: solo il 19% delle aziende non ne prevede in questi ambiti. Tra gli investimenti “fisici”, la quasi totalità delle imprese (81%) segnala la necessità di pc portatili, mentre investimenti sullo smartphone aziendale sono circoscritti al 38% delle aziende. Rilevante appare invece l’attenzione alla sicurezza informatica: in ben 4 aziende su 10 gli investimenti fisici sono concentrati su strumenti di protezione. Riorganizzazione di spazi e potenziamento di infrastrutture ICT hanno, poi, coinvolto circa il 30% delle aziende. Le aziende che segnalano la necessità di cambiamenti nella gestione delle risorse connessi allo smart working sono solo il 40%, una quota sorprendentemente contenuta considerando l’impatto che tale organizzazione del lavoro comporta: in 1 azienda ogni 3 è stato introdotto un sistema di valutazione basato sul raggiungimento di obiettivi, ma solo l’1% ha adottato parametri specifici di produttività per chi lavora a distanza. Infine, è opportuno rimarcare le opportunità ma anche i rischi connessi allo smart working. Avendo concesso una sola possibilità di scelta, quasi la metà delle aziende che ha collaborato all’iniziativa ha guardato alla ricaduta positiva per i propri collaboratori (conciliazione vita-lavoro 31%, fidelizzazione e attrattività aziendale 17%), mentre il fattore economico è quello principale per meno di un quarto delle aziende (orientamento al risultato 13%, miglioramento delle performance 6%, ottimizzazione dei costi per l’utilizzo degli spazi 4%), mentre il rimanente 28% non ha fornito indicazioni. Dal lato del principale rischio, il più citato è l’impatto sull’interazione delle persone, sommando la minor comunicazione (29%) e il minor contributo all’innovazione (15%), mentre il possibile conflitto tra dipendenti eligibili e non raccoglie ormai che un numero esiguo di segnalazioni (4%).
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