Si diffonde l’utilizzo del biglietto nominale per contrastare il fenomeno del bagarinaggio: il Colosseo lo ha appena introdotto. L’ingresso a offerta libera, sul modello della National Gallery di Londra, può essere un’alternativa? È un’estate, questa, in cui, in campo culturale, si sta parlando molto di biglietti. Sono tornati i turisti, e con essi sono tornati sia i bagarini, sia la voglia di finanziare il patrimonio culturale attraverso la bigliettazione.
Se ne è parlato soprattutto perché il Colosseo ha introdotto, dopo anni che se ne parlava, i biglietti nominali, cioè associati a nome, cognome e documento, per combattere il fenomeno di bagarinaggio che puntualmente avviene fuori dai suoi cancelli. Un’inchiesta di RomaToday nei giorni immediatamente precedenti aveva mostrato come avviene l’attività abusiva, per il Colosseo ma anche per altri Musei della Capitale, a partire dai Musei Vaticani. Se ne è parlato anche perché un’inchiesta di FanPage ha mostrato come un bagarinaggio strutturale sia in azione per entrare al Parco del Vesuvio: non c’è più biglietteria, ma c’è ancora il biglietto, acquistabile solo online e in un’area in cui l’unico Wi-Fi disponibile è in mano alle bancarelle presenti. Non è certo una novità, i bagarini sono da decenni attivi agli Uffizi (che hanno vinto una causa contro il bagarinaggio online, ma continuano a fare i conti con quello in presenza), a Pompei, e in molti grandi attrattori culturali italiani. Di biglietto si è parlato anche per altri casi e altri motivi, ad esempio per il caso dell’ipogeo dei Cristallini, aperto a Napoli dopo anni di restauri e con il sostegno della Regione Campania, che propone un biglietto di 25 euro per poche decine di visitatori al giorno: troppi, secondo una buona parte della cittadinanza. Di biglietto, sempre a Napoli, si è parlato perché il Comune lo vuole introdurre – dove non c’è – o alzare in tutti i musei civici, che dovrebbero essere gestiti da una fondazione entro la fine dell’anno. E poi se n’è parlato perché a Venezia il Comune vuole introdurre un contributo d’accesso per la città storica, primo in Italia e nel mondo. E tanti altri possono essere gli esempi.
Non è certo un tema nuovo in un se in cui il valore medio del biglietto d’ingresso è cresciuto del 100% in dieci anni mentre i salari calavano (e veniva rimossa la gratuità per gli over 65), ma il post-pandemia ha portato a una condizione nuova in alcuni luoghi, quella descritta per il Vesuvio: la biglietteria fisica non c’è più, ma il biglietto è richiesto, e l’unico modo per comprarlo è online, a volte pagando anche diritti di prevendita. Potete immaginare cosa ciò voglia dire per persone non native digitali, ma in generale una situazione capace di scoraggiare chiunque non fosse particolarmente motivato a visitare quel luogo. Sicuramente uno dei tanti fattori che ha portato a un crollo della partecipazione culturale in questi due anni. Di fronte a questo quadro, ci si chiede se il sistema di bigliettazione che ha caratterizzato i musei italiani (e non solo) per decine di anni, sia ancora il più funzionale possibile. Un sistema che, in sostanza, vedeva il biglietto come elemento centrale dell’autofinanziamento dell’istituto, e tutto il resto, dai servizi educativi, alle audioguide, alle caffetterie e al merchandising, come “aggiuntivo”, in più. Ce lo si chiede anche alla luce del fatto che, dopo l’introduzione del biglietto nominale al Colosseo – misura pur non scevra da altre critiche legate alla privacy – mentre i bagarini, sicuramente colpiti dalla misura, cercavano di riadattarsi alle nuove condizioni, a protestare duramente erano le guide turistiche abilitate, che denunciavano la difficoltà di svolgere il loro lavoro alle nuove condizioni imposte.
Naturalmente esistono dei modi per combattere il bagarinaggio diversi dal biglietto nominale, anzitutto i controlli delle forze dell’ordine, che però, se fatti a tappeto e in maniera efficace, costano. E quindi parrebbe spontaneo chiedersi: e se cambiassimo approccio e iniziassimo a pensare che una buona gestione museale non necessiti di biglietto? Non è una provocazione e non è neppure un invito alla “gratuità” dell’accesso al patrimonio, che pure è parzialmente, ma solo parzialmente, sovrapponibile all’eliminazione del biglietto d’accesso. Il ragionamento, reso urgente dall’avvento di internet e dall’eliminazione di alcune biglietterie fisiche, in realtà nasce dagli anni Novanta e dalla creazione dei servizi “aggiuntivi” di musei e biblioteche: caffetterie, bookshop, ristorazione, guardaroba, audioguide… una innovazione caotica che ha portato a considerare “aggiuntivi” servizi che per un museo non lo sono affatto, come quelli educativi. Oggi i musei si finanziano soprattutto attraverso la vendita di biglietti, perché tutti devono pagare il biglietto e non tutti comprano una cartolina, ma anche perché i proventi di tutti quei servizi “aggiuntivi” sono stati esternalizzati, dagli anni Novanta a oggi, con quote per il concessionario surreali, dal 60 fino al 100%, mentre i proventi dei biglietti vengono esternalizzati con ripartizioni ben più favorevoli per le casse statali. Il biglietto insomma è rimasto il perno essenziale dell’autofinanziamento museale, tutto il resto no.
Ora, ipotizziamo di dover realizzare un biglietto nominale, di dover prevedere una prevendita (esternalizzata), controlli delle forze dell’ordine per evitare abusi, in ogni sito statale che conosca più di un migliaio di ingressi al giorno in altra stagione… sarebbe conveniente, sia per le casse statali, sia per la fruibilità e accessibiltà del patrimonio? Ora invece, poniamo il caso che si decida di non chiedere il pagamento di un biglietto, ma di chiedere l’offerta più corposa possibile, secondo le disponibiltà di ognuno, all’uscita del museo. Di invitare chiunque a entrare e passare qualche ora lì, di passare al bookshop, di fruire dei servizi educativi – oggi esternalizzati, ma che una riforma in questo senso richiederebbe di reinternalizzare – che in caso di assenza di biglietto resterebbero certo a pagamento. Non è forse un sistema meno arzigogolato del biglietto nominale, per combattere il bagarinaggio e, al contempo, abbattere una barriera tra cittadini e luoghi della cultura che per le biblioteche, ad esempio, non esiste? E parlando invece di musei piccoli, e con pochi visitatori, quanto rende un biglietto da 3 o 4 euro, rispetto a una porta aperta con servizi di qualità, per cui si richiede un’offerta la più alta possibile?
Sia chiaro che questa analisi non vuole proporre una soluzione, ma un elemento di dibattito che potrebbe costituire una parte di soluzione. Anche perché rivoluzionare il sistema museale mettendo al centro i servizi oggi aggiuntivi e rendendo strutturali le donazioni, prevedrebbe di poter “fare fattura” su donazioni oggi non fatturabili. Insomma una riforma lunga e complessa. I problemi per evitare prenotazioni di massa e code resterebbero sia per i siti più frequentati, sia per quelli che possono essere visitati, per motivi di conservazione, da sparuti gruppi di persone. Tuttavia appare chiaro che per i siti più frequentati le cose e gli assembramenti non si risolvono con i biglietti prenotati in anticipo: ci sono giorni in cui la fila dei saltafila, agli Uffizi, è lunga quanto la fila di chi non ha pagato per saltare la fila. Forse si dovrebbe iniziare una profonda riflessione, differenziando da luogo a luogo ma partendo dal presupposto che la priorità deve essere la difesa della fruibilità di un luogo, del lavoro delle guide e degli operatori e della legalità, non del biglietto in sé e per sé. Il modello “grande museo” privo di biglietto d’accesso esiste già, a Londra, e pur non scevro di critiche – a partire dalle poco etiche sponsorizzazioni che i musei hanno deciso di accettare per sostenersi – ha garantito una sostenibilità, nonostante l’afflusso di turisti, mentre sistemi di abbonamento e partnership per i frequentatori abituali si sta già sperimentando in diversi musei d’Italia. Una bibliotecizzazione dei musei è possibile e forse auspicabile, per affrontare il XXI secolo? L’alternativa di trasformare i maggiori musei in spazi in cui si accede solo su prenotazione nominale, prevedrebbe una solida riflessione e discussione politica, perché il modello delle partite di calcio e dei concerti da cui si prende ispirazione, più o meno criticabile, si applicava su eventi d’interesse privato, non su servizi pubblici essenziali.
(fonte Finestre sull’Arte)
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