Basterebbe questa immagine per dire basta. Un figlio piegato accanto alla madre, coperta da un lenzuolo bianco arrossato di sangue. Nessun fotografo, nessun cameraman, nessun giornalista ha avuto la sfrontatezza di interrompere quel silenzio, o la pazienza di aspettare, così non sappiamo chi è quella donna, né come si chiamava, la guerra va di fretta. Ci sono altre persone che attendono, vivono, sopravvivono, e sono i morti di domani, che aspettano di essere parte delle notizie, senza saperlo.
Però basta la felpa del figlio a immaginare una madre ancora non troppo anziana, e non devono essere passati tantissimi anni da quando era lei a rimboccare le coperte a lui: il lenzuolo bianco non lascia scoperto neppure un piede, né una mano. Non fosse successo tutto il resto, non fossero morte migliaia di persone, basterebbe questa immagine a dire che è troppo, che non ne valeva la pena. Vale, il timore di essere circondato dalla Nato, questa vita di madre sull’asfalto ? Vale, il diritto di scegliersi le alleanze che vuoi, questa vita di madre sull’asfalto ? La guerra va di fretta, ma ogni singolo atto è irreparabile. Potrai ricostruire case e teatri, ponti e ospedali. Ma le vite no. Io sono un padre, e dunque non mi intendo di maternità. In questi giorni di guerra penso da padre, guardando il mio figlio maschio che non dovrà imparare a sparare, e mio genero medico che non deve curare feriti di guerra. Ma di tutte le vittime della galleria degli eroi ucraini l’unica che mi ha colpito è una madre, una dottoressa che aveva sei figli suoi e sei figli adottati, così che era già stata definita, per virtù demografiche, “eroina dell’Ucraina” e quando è morta ha lasciato una frotta di orfani. Non lo so quanto la guerra sia maschile, e del resto non mancano donne che vanno oltre il ruolo di crocerossine o vivandiere, ma so che la parola “madre”, quella stride con la parola guerra. Lo so dai racconti di guerra di mia madre, lo so da quando a scuola mi raccontavano di Maria Bergamas, la madre del soldato ignoto. Lo so da quando a Baghdad andavo a parlare con qualche imam alla Moschea di Umm al Marik, la Madre di tutte le battaglie, come l’aveva chiamata Saddam, ignorando che le madri odiano le battaglie.. Non riesco a non immaginare, quando sento di più di ventimila soldati russi morti, ventimila madri, che mi sembrano tutte babuske uscite dai film in bianco e nero, sulla soglia di una casa di campagna. Pochi giorni fa ho cercato, nel cimitero del Leone di Sarajevo, una tomba, senza essere capace di trovarla: le tombe musulmane hanno un piccolo obelisco in capo e un piccolo obelisco ai piedi del sepolcro, e mi sono perso in una Manhattan funebre. La tomba che cercavo era quella di una persona che non ho conosciuto ma il cui nome so a memoria. Lo so perché è tatuato sul braccio di un ragazzo che per me è un figlio, ed è il nome di sua madre, uccisa da una granata quando lui aveva poco più di tre mesi. Una volta ho visto le foto del matrimonio, ma l’immagine che ancora oggi le dà un volto è una di quelle foto di puerpere esauste e felici sul letto di una maternità, il bambino fasciato stretto. E’ l’unica foto rimasta di madre e figlio insieme. Non so cosa ha perso il figlio di questa madre sull’asfalto di Kiev. Si è perso, forse, quelle preoccupazioni per una madre che invecchia, quelle raccomandazioni che prima faceva lei a te e ora fai tu a lei, si è perso l’orgoglio di farla diventare nonna, o forse già lo era, chi lo sa, che sciupio di vite. So che è irreparabile, che un vuoto resterà come un tatuaggio invisibile, a ogni compleanno mancato, a ogni Natale ortodosso o cattolico o della Coca Cola, a ogni Festa della donna o della Madre, a ogni momento qualunque, chiamatela pure pace, ma non sarà mai più la stessa cosa. Volete sapere una cosa ? Mi impietosisce anche la fabbrica dei figli. Ci sono ventuno bambini nati in Ucraina, ma attesi non da una guerra. Attesi da qualche coppia in Canada, o in Italia o in Gran Bretagna. Mi impietosisce non solo perché stanno in un bunker a quattordici chilometri da Irpin. Ci sono tra i 2000 e i 2500 parti l’anno, in Ucraina, per contro d’altri. Vale a dire donne che affittano il proprio corpo a un ovulo e a uno sperma altrui per dare alla luce dei bambini che poi saranno consegnati ai committenti. Adesso i committenti non possono ritirarli, le madri non sempre possono farsi profughe, le anagrafi sono chiuse, gli aeroporti anche. Adesso ci sono donne che crescono dentro di sé figli da cui non si staccheranno come da contratto, e immagino che sopravvivere insieme sotto le bombe renda tutto più difficile. Mi sono sempre tirato indietro davanti alle mie stesse domande, al bisogno di genitorialità, alla natura della coppia committente, uomo/donna, donna/donna, uomo/uomo. Ma mi arrendo davanti a questa madre sull’asfalto. C’era – lo ricordate no? in questa guerra che corre – quella madre sulla barella di Mariupol. Si intuiva una pancia agli ultimi giorni, e si vedeva una ferita sulla coscia. Sono morti entrambi. Lei, e il figlio che se ce l’avessero fatta, l’avrebbe vegliata, vecchia, accanto a qualche letto d’ospedale, dove le lenzuola sono lenzuola, non sudari, di quelli che poi tirano un paravento, è nell’ordine naturale delle cose. La corsia non è la strada, non c’è nessun fotografo a mostrare al mondo quel che succede, quando i figli del disordine del mondo non sono capaci di dire basta.
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