Come spiega il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, con delega al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), tra quanti imparano un mestiere, soltanto il 2% ritorna a delinquere.
Quindi il piano a cui lavora il ministero della Giustizia, (a differenza da chi finora ne ha soltanto parlato) è un «maxi-sconto» per chi decide di far lavorare chi oggi sta scontando una pena, con vantaggi sia per i carcerati che imparano un mestiere, sia per lo Stato, perché «chi riesce a professionalizzarsi ha molta meno probabilità di tornare a delinquere una volta libero».
Il sottosegretario anticipa in un’intervista al Messaggero il progetto affinché la «rieducazione» dei detenuti non resti lettera morta.
Sottosegretario, come mai con tanti giovani che non trovano un impiego, la priorità è mettere al lavoro i detenuti?
«Perché più lavoro in carcere significa meno criminalità. Le statistiche lo dimostrano: in sei casi su dieci, chi oggi si trova in un penitenziario c’era già stato almeno una volta. Invece, chi durante la detenzione aderisce a un programma di recupero che contempli l’attività lavorativa, ha solo il 2 per cento di probabilità di ricominciare a delinquere, una volta fuori».
Programmi del genere esistono già oggi, ma sono poco sfruttati. Come si inverte la rotta?
«La stragrande maggioranza dei detenuti coinvolti in attività lavorative attualmente è impiegato direttamente dall’amministrazione penitenziaria. Noi intendiamo coinvolgere le imprese. Per questo abbiamo già avviato un confronto con il Cnel, associazioni e fondazioni molto interessate al progetto. Nelle prossime settimane al ministero, attraverso la direzione generale per il trattamento dei detenuti del Dap, partirà una cabina di regia con tutti gli attori coinvolti, col compito di raccogliere proposte ed elaborare la bozza di un provvedimento».
Ma le imprese che convenienza avrebbero, ad assumere detenuti?
«Finora sono poche le aziende che hanno portato lavoro nelle carceri, pur se con risultati soddisfacenti. Noi invece puntiamo a rendere ancora più semplice investire in questo senso, con meno burocrazia e incentivi fiscali e contributivi simili a quelli previsti per le cooperative sociali».
E come?
«Già oggi la legge prevede uno “sconto” fino a 520 euro sull’Irpef se il contratto di lavoro viene stipulato con un detenuto, oltre a un taglio del 95% dei contributi dovuti all’Inps. Una buona base di partenza che si può migliorare: i maggiori benefici, fino a questo momento, sono andati al Terzo settore. Il nostro obiettivo è ampliare ulteriormente questo ventaglio di opportunità anche per i privati. Sarà la cabina di regia a definire nel dettaglio i nuovi sgravi».
E le risorse? Quanto costerà questa operazione?
«Anche questo sarà oggetto di esame. Ma ricordiamoci che oggi ogni detenuto costa 138 euro al giorno. In questo modo invece, il detenuto avrà un suo stipendio, sul quale pagherà le tasse. Dunque un beneficio per lui, per l’azienda che lo assume e anche per lo Stato, perché se chi esce non torna a delinquere, si genera un risparmio sul fronte sicurezza».
Diranno che è uno “svuota-carceri” mascherato.
«Nessuno svuota-carceri, né indulto. Quel tempo è finito: chi viene rimesso in libertà senza aver imparato nulla rischia di tornare nel circuito criminale. Le attività lavorative, in base a questo piano, per chi non si trova in semi-libertà sarebbero portate avanti all’interno delle stesse strutture carcerarie. In molti penitenziari, esistono già spazi adeguati».
E dove gli spazi non ci sono?
«Per prima cosa, va fatta una verifica nazionale di tutti gli istituti in grado di ospitare attività lavorative. L’idea è quella di adibire a questo fine spazi demaniali in disuso. Un esempio concreto: una vecchia caserma abbandonata accanto al carcere di Arezzo. Prima andrà fatta una mappatura delle strutture, poi potranno essere recuperate. Anche con la collaborazione dei privati».
Non sarà un impegno troppo oneroso, per le imprese?
«No, perché saprebbero di avere un ritorno economico e fiscale da questa operazione».
Il suo collega Andrea Delmastro, invece, propone di far scontare la pena ai detenuti tossicodipendenti in comunità. Condivide?
«Serve attenzione. La tossicodipendenza non diventi una scappatoia per uscire dal carcere. Il nostro ordinamento, in questi casi, già prevede misure alternative come l’affidamento in prova in comunità: si tratta di applicarle, evitando che spacciatori comuni si dichiarino assuntori solo per convenienza».
Riforma della giustizia: quando arriverà? E quali saranno i punti salienti?
«Il nostro obiettivo è presentare un pacchetto di provvedimenti entro l’estate. Si comincerà dalla cosiddetta paura della firma, a partire da un intervento sul reato di abuso d’ufficio».
Sarà eliminato?
«Eliminarlo o modificarlo, poco importa. Quel che conta è che sindaci e amministratori devono poter lavorare in tranquillità. E che si sblocchi la paralisi di molte pubbliche amministrazioni».
E le intercettazioni?
«Faranno parte del pacchetto, così come un intervento sul segreto istruttorio, che deve restare tale fino all’inizio del procedimento. Voglio essere chiaro: le intercettazioni vanno mantenute, anche per reati come la corruzione. Ma devono essere intese come strumento di ricerca della prova, non come prove esse stesse. O peggio, come strumenti mediatici».
Servono nuove sanzioni per chi le diffonde?
«Non credo siano necessarie nuove sanzioni per i giornalisti. Piuttosto, concentriamoci sul rendere lo strumento più utile per chi indaga. E per farlo utilizzare correttamente».
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