Africa bella, gli europei van via

Esteri RomaPost

2 – Dunque, l’Africa corre un periodo antieuropeo ed antioccidentale malgrado che l’Unione Europea investa ogni anno il doppio della Cina, $240 miliardi contro 120 e resti il principale partner dell’Africa. L’antieuropeismo africano è dovuto, nell’ignoranza dell’opinione pubblica del vecchio continente, alle nuove politiche europee dell’accordo quadro di Cotonou (Benin), alle clausole di condizionalità democratica, alle clausole su immigrazioni e rimpatri (causa di insoddisfazione africana), che ha liberalizzato gli accordi di partenariato commerciale, alle pretese di unificazioni economiche regionali (stile Piano Marshall), alla fine delle preferenze commerciali, alla liberalizzazione degli accordi di partenariato slegati dal sistema post-Cotonou, agli stanziamenti, soprattutto destinati alla prevenzione dei conflitti, ai bilanci e non più ai progetti, indirizzati più alle organizzazioni regionali che agli Stati.

L’antieuropeismo africano è dovuto al calo dei contributi europei pubblici ai paesi di Cotonou rimasti sostanzialmente al livello del 43% del ’90, rispetto all’iniziale 65%; alla confusione tra aiuti delle strutture multilaterali della Ue, ca. un quinto dei fondi allo sviluppo, e nazionali. Questi ultimi, che dovrebbero essere lo 0,7% del Pil dei paesi Ocse, ma in genere sono lo 0,4%, per metà finanziano soggetti nazionali operativi all’estero (tiedaid), mentre vengono ormai ridotti stabilmente dello 0,7% per le spese di gestione di immigrati e rifugiati (l’Italia nel 2021 è arrivata ad un 0,29%, che in realtà misurava 0,22%). I trasferimenti allo sviluppo non sono efficienti per prioritarizzazione, partnership, trasparenza, competitività. La prevalenza dei contributi nazionali spinge i paesi africani a coltivare relazioni bilaterali annullando de facto le condizionalità poste dalla Ue agli aiuti,i criteri di Copenaghen (rispetto per diritti umani, buon governo democratico, progetti di unione doganale e monetaria)la cui violazione non è mai stata sanzionata. Con la Brexit poi gli stanziamenti Uk hanno preso una via indipendente. Non incoraggia l’annuncio della von Leyen sullo stanziamento di €21 miliardi annui (150 in un settennato, pubblico e privato, per la transizione ecologica) al summit Ue con l’Unione africana del febbraio 2023 cui il presidente del Sudafrica Ramaphosaha risposto, Il tempo delle briciole dalla tavola deve finire.

Indubbiamente i contributi dovrebbero rientrare in una politica Ue comune, il che è impedito dalle diverse linee sostenute dai paesi europei, tra quella umanitaria di sostegno, quella democraticista, la lotta agli sbarchi e la linea francese di presenza finanziaria e militare della Francafrique, mentre oltre il Mediterraneo, Afriche settentrionale e nera sub-sahariana non dialogano. Fuori da ogni ipocrisia, realisticamente è evidente che l’Ue non può recedere dalla lotta all’immigrazione selvaggia; ne può fare affidamento sulle 5 (su 54 paesi) democrazie africane e non può neanche credere che Parigi abbandoni i suoi legami con la Cedeao (Communauté Economique des Etats de l’Afrique Occidentale) che include Nigeria e la Cemac (Communauté Economicomonétaire de l’Afrique Centrale), inclusa la Repubblica Democratica del Congo, aree peraltro legate all’euro, ancora tramite il Cfa ed in futuro con l’Eco (forse da allargare al Comesa dell’Africa orientale, Common Market of Eastern and Southern African Community ed al Sadc dell’Africa meridionale, Southern African Development Community);

Le politiche europee sono legate anche alla presenza dei capitali delle multinazionali privati Ue, $67 miliardi olandesi (e $66 Uk) per la Royal Shell, $65 francesi per la Total Energies, $31 italiani per l’Eni, presente in 14 Paesi africani, oltre ai $15 svizzeri, che danno il primato anche agli Ide, investimenti diretti europei. Seguono gli Ide cinesi, $44 miliardi, in ascesa nell’ultimo decennio; gli $43 americani, in calo; quelli africani di Mauritius, $37, e Sudafrica, $33, e di Singapore, $20 in un continente dove i nuovi Ide l’anno valgono in media $42 miliardi e se languono, restano solo gli aiuti pubblici. Pur essendo strumento di sviluppo e di unificazione regionale dei mercati, le esecrate multinazionali occidentali monosettoriali e concentrate in pochi paesi, sono state spesso un ostacolo alla democrazia ed una pressione per rapporti bilaterali nella regione. L’assenza delle multinazionali, che seguono principi di mercato, però segna il mancato sviluppo del continente; a tutt’oggi, gli Ide per l’Africa (in calo nel NordAfrica e nell’Africa meridionale che fa però da sé; in aumento nelle Afriche occidentale, centrale ed orientale) sono il 4,1%di quelli totali nel mondo, un ottavo di quelli per il Sudamerica ed un ventesimo di quelli per il Sudest asiatico.

Gli Ide cinesi, di 2mila imprese e 2 milioni di operatori su quasi tutti i paesi africani, 52su 54 tra cui Sudafrica, Congo Democratico, Angola, Zambia, Etiopia, Nigeria, Ghana, Algeria, Zimbabwe e Kenya sono passati dai $210 milioni nel 2000 ai $2,71 miliardi nel 2019, $3 nel 2020 per un totale di $47,35 miliardi cui bisogna aggiungere $3,51 miliardi di annullamento di debiti dal 2000 al 2020 ed ammontano al 63% del totale Ide cinese. Malgrado il primo Beijing Forum on China-Africa Cooperation (Focac) del 2006 ed il sorpasso nel 2013 sugli investimenti americani, restano dietro gli europei (almeno fino al 2030)ma rispetto a questi intervengono su un più ampio ventaglio di settori ($14 miliardi per le infrastrutture dai 500 milioni nel 2001, poi strade, telecomunicazioni, ferrovie, sanità). La Cina con 148 miliardi di export e 106 di import ha superato l’interscambio commerciale Usa che via via dal 2010 ha perso interesse per l’Africa (tiene addirittura la base di Africom a Stoccarda). Pechino, per Ide ed ogni altro intervento, rispetta la non ingerenza e non dà lezioni di democrazia.

Ci sono nuovi protagonisti nel continente nero, si va dalla Turchia con base militare a Mogadiscio, al Qatar, dagli Emirati Arabi Uniti all’Arabia Saudita, dalla Russia alla Cina impegnate sull’onda della diplomazia dei vaccini Sputnik e Sinopharm. Solo Cina e, dal punto di vista finanziario, Arabia Saudita sono di impatto economico. Gli altri costituiscono presenze militari e di propaganda religiosa. La war on terror americana, cui gli europei si sono accodati, ha ottenuto più fallimenti che successi, moltiplicando una pulviscolare presenza jihadista, sostenuta dai paesi del Golfo. Anche le recenti vittorie di Africom in Somalia dove l’Isis locale ha perso un terzo del territorio controllato, hanno visto l’effetto collaterale della crescita dell’antioccidentalismo. Il disastro politico libico, dove ormai i paesi consolidati sono due, con egemonie turca e russa, è considerata responsabilità europea ed occidentale, come anche il disastro economico tunisino.

L’effetto però della guerra in Ucraina, al culmine degli shock globali (guerre, inflazione e Covid) ha danneggiato l’Africa, portato l’inflazione africana al 12,3% (si prevede un calo all’8%), il doppio della media mondiale del 6,7% ed il rapporto debito/pil dal 57% del 2019 al 64,5% (meno del 30% tra 2007 e 2013). L’Africa ha visto la chiusura del flusso dei finanziamenti, l’esaurimento delle riserve e lo spettro dell’indebitamento. Malgrado l’aumento dei prezzi delle materie prime, la crescita africana dal 2014 non va oltre il 4%. E la guerra in Ucraina, dal punto di vista africano, è colpa europea. Così ben 16 Stati africani all’Onu non hanno votato per il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina.

L’effetto concreto è stato lo sfratto nel 2022 della forza francese Barkhane presente dal 2014, a seguito degli ennesimi colpi di stato in Mali e Burkina Faso. La missione Eucap Sahel, costo €640mila a guida e appalti francesi, è finita con il secondo colpo di stato del colonnello Goïta.Gli europei dal Sahel, malgrado aiuti da $8 miliardi in 10 anni, sono fuggiti nella gioia popolare nel Niger. In Mali i mercenari francesi di Amarante sono stati sostituiti dai colleghi russi di Wagner di Prigozhin interessati ai giacimenti d’oro, diamanti e risorse doganali. Anche in Sudan il cambio di potere ha scatenato una guerra civile sostenuta dalla Wagner che si è invece ritirata dal Mozambico per l’avanzata dei ribelli islamisti contrari allo sfruttamento del gas. L’Europa non può pensare di scindere il proprio ruolo dai francesi che se vanno come in una nuova ÐiệnBiênPhủ.

(2, continua)

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