(Foto di apertura: una cartolina pubblicitaria con alcune delle macchiette di Milano, personaggi caratteristici che giravano per le strade di Milano nell’Ottocento.)
Il 26 ottobre 1889 morì una delle tipiche macchiette milanesi, Giuseppe Stella, un omino piccino piccino, con dei baffetti sottili e ancora biondi, come i capelli, nonostante avesse superato i settant’anni.
Figlio di poveri operai milanesi, iniziò a lavorare da giovanissimo, imparando giusto a leggere e a scrivere. Di professione “inverniciatore”, quando tornava nella sua misera stanza la sera, passava ore a leggere, a lume di candela, tragedie, commedie e tutto ciò che veniva poi rappresentato nei teatri milanesi. Ogni sabato sera il buon Stella si presentava in uno dei tanti teatri lungo la Corsia dei Servi.
Appassionato, quasi malato di teatro, per decenni non mancò di assistere a praticamente tutti, o quasi, gli spettacoli che si alternavano nei teatri meneghini.
Negli anni che coincisero col trasferimento della capitale da Torino a Firenze, vi fu una dura lotta contro i dialetti e i localismi, cercando di “fare gli italiani”, partendo dal linguaggio codificato dal Manzoni con i Promessi Sposi. Giudicate lingue popolane, volgari e poco nobili, videro proprio nelle opere teatrali il prevalere del “nuovo italiano” come lingua di scena.
Fu così che Camillo Cima, uomo quasi rinascimentale in quanto a sapienza e raggio d’azione, architetto, pittore, drammaturgo, giornalista, illustratore ed editore, decise di fondare anche una compagnia teatrale per salvare e preservare le tante commedie e drammi che, sin dall’epoca di Carlo Maria Maggi, erano scritte e rappresentate in dialetto milanese.
Il 16 maggio del 1869 vi fu il debutto al Teatro Gerolamo della compagnia del Cima; prendendo spunto da quell’idea, Cletto Arrighi, l’altrettanto poliedrico Carlo Righetti, giornalista, eroe risorgimentale, scrittore, editore e politico radicale, fondò nel dicembre dello stesso 1869, la Compagnia del Teatro Milanese, con attori quali Edoardo Ferravilla, Gaetano Sbodio, Emma Ivon, Edoardo Giraud e Giuseppina Giovanelli.
Proprio nello stesso anno, lo Stella, ormai conosciuto da tutte le compagnie teatrali, dagli attori, dai registi e dagli scrittori, venne chiamato a fare il suggeritore da una compagnia dilettantistica.
Il suggeritore, allora come oggi, è un imprescindibile membro di una compagnia teatrale. Seduto dentro la “buca”, un vano posto al margine del palcoscenico e nascosto alla vista degli spettatori da una cupola, detta “gobbo”, leggeva dal copione le battute che ogni attore doveva pronunciare, con un tono bassissimo, udibile solo a chi stava sul palcoscenico e non al pubblico.
Il suo ruolo, a dispetto di quel che oggi si può ritenere, era tra i più rilevanti in ogni compagnia teatrale. La sua figura, nata in Francia nel Seicento, era sempre prerogativa di un uomo colto, spesso un poeta o uno scrittore con la passione del teatro. Allora, infatti, la quasi totalità degli attori erano analfabeti e le parti di uno spettacolo le dovevano imparare a memoria, guardando recitare altri. La figura del suggeritore, unico che sapeva leggere il copione, era quindi fondamentale.
Ancora nell’Ottocento, al tempo del buon Stella, l’analfabetismo era diffusissimo e il ruolo di suggeritore ancora in auge.
L’Arrighi, che probabilmente conosceva la nomea dello Stella, sia come appassionato, sia per la sua recente qualifica di suggeritore, lo fece chiamare immediatamente e lo assunse nella Compagnia Milanese.
Il successo della nuova compagnia dialettale fu incredibile, grazie alla bravura del Ferravilla e degli altri attori e ai bellissimi testi che portavano in scena.
Ben presto lo Stella, suggeritore apprezzatissimo da tutti gli attori, iniziò a lavorare sempre meno come “inverniciatore” e a dedicarsi sempre più al teatro.
Sentendosi a pieno diritto membro della Compagnia Milanese, iniziò anche a vestirsi come un attore, indossando un lungo stiffelius scuro, tipico abito da scena e frequentando il Caffè Porati, in via della Signora, luogo in cui si ritrovavano tutte le sere gli attori che non erano impegnati sul palco.
Rapidamente lo Stella si impose come uno dei mattatori dell’allegra combriccola del Caffè Porati, i cui giudizi sui copioni che illustri scrittori gli mandavano per un parere, erano sempre delle sentenze inappellabili.
Sempre allegro, gioviale, educato e rispettoso, era la vera anima della Compagnia Milanese.
Nel 1883 venne colto da una paresi al braccio destro, che gli impedì di continuare a lavorare, saltuariamente, come “inverniciatore”; con i soldi messi da parte in una vita di lavoro, prese in affitto un locale nella strada dove viveva da anni, in via Fontana 11 e vi aprì una rivendita di vini francesi e piemontesi, con annessa osteria, abbandonando, a malincuore, il lavoro come suggeritore.
Ma il vecchio detto, “Ofelè fa el to mesté!”, è sempre valido e lo Stella dovette chiudere l’osteria l’anno seguente, travolto dai debiti.
Tornò così nella Compagnia Milanese, dove venne accolto a braccia aperte; lo stesso accadde al Caffè Porati, dove si ripresentò col suo stiffelius fuori moda.
Durante l’estate del 1889, venne colto da un nuovo ictus che lo rese del tutto invalido; lo Stella si spense quattro mesi dopo.
Al funerale parteciparono tutti gli uomini di spettacolo milanesi, oltre ad altri giunti da altre città, in rispetto di un omino gentile e sempre sorridente, il cui ruolo era fondamentale per gli spettacoli e del tutto ignoto agli spettatori.
Il lunghissimo corteo che dalla chiesa di San Pietro in Gessate si diresse verso il Cimitero di Porta Vittoria, fuori da piazza Cinque Giornate, vide passare un elegante carro funebre di prima classe, ricoperto da fiori e seguito da alcune dozzine di corone funebri.
Al passaggio del corteo i milanesi si fermavano tutti a farsi il segno della croce per poi chiedere al vicino lungo il marciapiede:
“Ma chi l’è mort?”
“Giuseppe Stella”
“E chi l’è?!”
“Ah, el su no mi!”
“Mai sentito!”
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