Brunetta: Napolitano, il Grande Vecchio “che a colpi di intrighi fece cadere Berlusconi”

Attualità

Il libro “Berlusconi deve cadere. Cronaca di un complotto”, scritto nel 2014 dall’ex ministro Brunetta per il “Giornale”, ricostruì il complotto che nel 2011 portò alla caduta del governo di centrodestra con la regia di Napolitano. Ecco quale fu il suo vero ruolo

Giorgio Napolitano resta un ossimoro vivente. Diventa amico dei nemici, e nemico degli amici. Ha un carisma eccezionale nel confondere, nel provocare scissioni, restando nel contempo polo di attrazione degli opposti. Se proprio è necessario pensare a un Grande Vecchio, lui sarebbe perfetto.

Era un Grande Vecchio anche da giovane. Quando nel 1970 ci fu la scissione del Gruppo del Manifesto, di Rossana Rossanda e Luigi Pintor, fu incaricato di ricondurre all’ovile Massimo Caprara, napoletano come lui, della nidiata di giovani intellettuali liberali sedotti da Togliatti nel 1944-45. Ebbene riuscì a non fare accadere nulla, anzi a spingere fuori anche Caprara. E votò per la radiazione dell’amico. Al quale, nel momento della morte, 40 anni dopo, dedicò un commosso ricordo. Sincero senz’altro. Ma intanto l’aveva radiato.

Un caso di ambivalenza, di capacità di fascinazione volta per volta a destra e a sinistra, lo ha raccontato nella intervista a Rai Tre, a «Che tempo che fa», il 13 aprile 2014. Interrogato da Fabio Fazio rievoca: «Kissinger era segretario di Stato quando fui invitato da quattro o cinque delle maggiori università americane, e presentai la domanda per avere il visto. Occorreva un nulla osta waiver del segretario di Stato americano, se il richiedente era un comunista o un fascista. Io ero il primo caso, ovviamente, e Kissinger non volle prendere in considerazione la concessione del visto». Kissinger (K. per antonomasia, da cui amerikano) era stato direttore del Centro di Studi europei ad Harvard e mal sopportava l’idea di ospitare il comunista che aveva benedetto l’invasione sovietica dell’Ungheria a pontificare nella sua università, in piena guerra fredda. Era il 1975. Poi ecco che Enrico Letta di rientro dagli Usa gli portò, stupito, nel settembre del 2013, i saluti cordiali del medesimo K.

Si vanta, sempre da Fazio, Napolitano: «Poi abbiamo avuto uno straordinario recupero di rapporti amichevoli».

Nel frattempo il Pci si era scisso, aveva esaltato e ucciso Achille Occhetto, cambiando nome. E Napolitano, navigatore di tutti i mari, accompagnatore silente delle varie divisioni, separando se stesso dalla visione comunista, ma non dal proprio curriculum, approda al Quirinale. È il garante dell’unità della nazione. Per garantire questa unità fa poltiglie di qualsiasi gruppo coeso che incontra sulla sua strada, per regalare ai suoi disegni di sovrano un pulviscolo ossequioso. Quando lo scisso si accorge dell’uso che di lui viene fatto, si ritrova solo, e non conta niente, dunque viene scaricato.

Dal 2006 in poi, eletto presidente della Repubblica, favorisce, incoraggia, pratica la moral scission, scusate il maccheronico. Lo fa blandendo e consigliando presidenti ed ex presidenti del Senato e della Camera. Il primo a fruire dei consigli e a lasciarsi sospingere dall’Udc al Partito democratico è stato Marco Follini. Quindi è cascato nella rete Pier Ferdinando Casini, in corsa da solo nel 2008.

Poi è stata la volta di Gianfranco Fini. E qui la lusinga di Napolitano è stata ad effetto devastatorio per l’Italia, e un nodo centrale del complotto. Napolitano possiamo dire, per usare un’espressione alla moda, è stato il Grande Vecchio a sua insaputa. Sin dagli inizi del quarto governo Berlusconi, Fini assunse una posizione di polemica nei confronti della politica economica e dell’arroganza personale di Giulio Tremonti. Una vecchia storia. Già nel 2004, dinanzi alla tracotanza di Tremonti era riuscito a sbatterlo fuori dal governo. Nel 2008, l’idiosincrasia reciproca fu uno dei motivi che indusse Fini a scegliere una postazione istituzionale in luogo di assumere una carica ministeriale importante. Fu Fini, nei primi mesi di governo, a raccogliere e proteggere la grandissima parte di ministri vessati e impediti di fare il loro lavoro, dai continui dinieghi e diktat di Tremonti coi suoi tagli lineari. Fini in quel momento era senza alcun dubbio il delfino di Berlusconi, destinato pacificamente a succedergli alla testa del Popolo della libertà e di tutto il centrodestra. Improvvisamente, invece di far quadrato con i ministri, e ben al di là dei confini di quella che era stata Alleanza nazionale, trasformò il suo motivato rifiuto dell’egemonia di Tremonti, che si riteneva il garante della Lega nel governo, in ostilità a Berlusconi. Meditò e condusse a compimento una scissione che sin dal luglio del 2010 rese debole la nostra maggioranza, dapprima sottoposta al ricatto del suo gruppo parlamentare, di cui non ricordo nemmeno il nome, e poi il 14 dicembre miracolosamente sopravvissuta grazie al rientro di alcuni scissionisti nei nostri ranghi e all’apporto di alcuni «responsabili» il 14 dicembre 2010. Da allora la navigazione fu perigliosissima. L’onorevole Amedeo Laboccetta ha spiegato questo impazzimento di un delfino trasformato in acciuga recando testimonianza di colloqui avuti da Fini con Napolitano, che ne lusingò le ambizioni, prospettandogli la guida del governo con la liquidazione giudiziaria di Berlusconi.

Fallito il golpe di Palazzo del 14 dicembre 2010, con la fiducia ottenuto da Berlusconi, il lavorio di Napolitano si concentrò su Tremonti, a sua volta convinto di poter essere chiamato a sostituire il Cavaliere a Palazzo Chigi. Poi eccoci a Mario Mauro, amico di vecchia data di Napolitano al parlamento europeo, unico di Forza Italia a perorarne l’ascesa al Colle nel maggio del 2006. Parla con il capo dello Stato e si allea con Monti in Scelta civica. Napolitano lo premia facendolo ministro della Difesa, e poi lo scarica solitario e triste quando non serve più all’arrivo di Renzi, non prima di aver condotto Mauro a separarsi anche da Scelta civica. Lo stesso con Alfano e con i suoi ministri, non a caso nominati da Napolitano, ben consapevole che erano destinati a separarsi dal fondatore di Arcore. Stessa storia nel Partito democratico.

In fondo Letta è il braccio destro di Bersani, amputatogli da Napolitano per fare un governo in cui i lettiani sono scissionisti rispetto ai bersaniani. E i 101 che bocciarono Prodi per il Colle non è che avessero un nume diverso da quello residente in quel momento al Quirinale.

E Renzi? Nella nostra storia Napolitano non è il capo del complotto, neanche ne è comprimario. Semplicemente è la condizione sine qua non dello scivolamento della valanga dello spread addosso a una maggioranza resa fragile.

L’unico potere forte italiano, se la maggioranza è debole, il governo è fragile, e il popolo viene a bella posta impedito di esprimersi elettoralmente, è lui, il capo dello Stato che per essere garante dell’unità nazionale si fa Re, a costo di frantumare tutto il resto, secondo il motto divide et impera. (Il Giornale)

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