C’è un decalogo sull’Africa, a cominciare dal ricordarsi che si tratta di 250 tribù e non di 54 Stati. Della loro ricchezza complessiva, $46mila miliardi ma il Pil è solo di $2,6 mila miliardi di cui $250 milioni di rimesse degli immigrati in Europa(gli Usa dispongono di $25 mila miliardi). Del fastidio dell’Africa araba per la nera. Dell’animismo tribale e islamismo, non credenze ma religioni. Della grande storia millenaria, dall’Egitto, al Mali, all’Etiopia fino alle recenti Prima e Seconda Grande Guerra africana, toccata dal colonialismo arabo ed europeo per un breve momento. Ci sono opinionisti africani sui canali europei, arabi, talvolta Usa(quelli afroamericani Usa sono un’altra cosa) ma l’Africa non ha grandi emittenti che la possano fare sentire worldwide come invece ne esistono nel mondo arabo. Se la voce non c’è, il viso africano è un bambino malato, una merce in vendita, contraria alla deontologia media di Treviso del ’90. Gli sfollati africani sono in un anno 5,5 milioni per conflitti armati (nel 2017) e 2,6 milioni per disastri naturali. C’entrano poco con gli sbarcati in Europa. I neri sono l’8% di 5 milioni di immigrati senza contare gli afrodiscendenti in Italia. L’Africa è fatta di ventenni, una crescita del 5% annuo, morti a 56 anni. Non sono come i dissidenti sovietici dell’antica guerra fredda; non vogliono libertà ma lavoro (in alcuni Stati neri la disoccupazione è dell’80%) e cibo per la tribù; non possono aspettare i tempi lunghi dello sviluppo.
L’Africa dopo le prediche di due secoli sul cristianesimo e di un secolo di marxismo oggi è asfissiata da quelle sull’ambientalismo, green e clima; non lo sopporta, lo considera l’ultimo colonialismo. L’Africa, tranne alcuni casi di crescita di democrazia e di benessere negli ultimi anni, considera il suo disastro ineluttabile. A nulla sono valsi i finanziamenti europei, se non a far lavorare le nostre imprese (il che non è poco). I risultati spesso vanno in malora. L’Africa è retta da 4 grandi corruzioni e contrabbando, quella dei presidenti ereditari spesso sostenuti dall’Occidente, quella delle multinazionali, quella dei militari e quella della jihad. Dal punto di vista africano non sono molto diverse tra loro. L’appello alla procura internazionale contro le multinazionali, ritenute responsabili dello sfruttamento del continente nero, stranisce gli africani. La sostanziale deregolamentazione della lotta alla corruzione facilita la Cina; francesi e inglesi non badano in difesa dell’interesse nazionale. Solo i giudici italiani perseguitano le proprie corporation. In Africa però solo le multinazionali portano standard ambientali, diritti dei lavoratori e di non discriminazione, non certo le imprese degli altri.
In mezzo secolo, tra il ‘75 ed oggi l’Europa ha versato all’Africa quasi mille miliardi; €150 miliardi nei prossimi sette anni. Malgrado lo stato dei rapporti pessimi, l’Africa ritiene che l’Europa la finanzierà’ sempre. L’Africa è in sintonia con altri popoli, abbastanza arretrati, della stessa religione oppure forti che usano il terrore con sistematiche violenze sessuali massive e schiavismo in campo militare, civile, di lavoro e di polizia; e che li aiuta ad eliminare le tribù rivali. (Turchia, distribuzione di prodotti e media dalla Libia nell’Africa araba e la base militare di Mogadiscio; Russiafrique, basi in Cirenaica, otto colpi di stato nel Sahel, oro fino al Sudafrica, senza progetti di lungo periodo; Qatar, Emirati, Arabia Saudita, sostegno al terrorismo jihadista nordafricano). Un eventuale embargo alle vendite di armi darebbe il monopolio a questi paesi. I loro esborsi allo sviluppo sono esigui, a parte la Cina che comunque fino al 2030 non avrebbe superato gli importi europei. Poi però Pechino ha mollato il ritmo per guai interni e crediti inesigibili africani cui ha rinunciato.
Sotto il cappello delle convenzioni di Lomé, di Cotonu e di postCotonu, le assemblee parlamentari euroafricane paritetiche, da anni, dibattono di un possibile Parlamento comune, di corretto utilizzo degli aiuti, di stabilità, di democrazia, di partecipazione e di formazione. Un dibattito vuoto, dove la guerra fredda africana tra autoritarismo e democrazia, non può ignorare che l’Africa è estranea alla globalizzazione. Il libro dei sogni del Piano Delors per l’Africa di 30 anni fa agganciava il franco africano Cfa all’euro (aiuti economici ai bilanci pubblici, sostegno all’iniziativa privata, unificazione economica africana, abolizione delle preferenze daziarie, liberalizzazione degli scambi commerciali sostenuta da capitali privati, allargamento istituzionale al bacino del Mediterraneo e Medio Oriente e sicurezza preventiva verso la metà dei conflitti del mondo che sono in Africa).
Passati trent’anni, ad Abidjan, Costa d’avorio, nel 2017 le Unioni Europea e Africana hanno ripetuto le stesse cose; l’unificazione economica africana, l’intreccio di aiuti pubblici e di capitali privati. La questione seria è la fine dei flussi migratori incontrollati in cambio di aiuti ma non funziona l’obbligo di Cotonou per i paesi beneficiati dei rimpatri. Anche la prevenzione dei conflitti, affidati all’Unione africana, pur pagata, non riesce. Tutto perché gli stati africani non controllano le tribù. L’Europa dibatte di desertificazione (100mila kmq annui di terre fertili scomparse), di caccia indiscriminata(massacro di foche, rinoceronti ed elefanti), di sversamento di rifiuti tossici, di cambiamento climatico, di quota del pil per gli aiuti (0,7% o 0,4%), di gestione degli aiuti (dell’Unione o degli Stati?), del 30% degli aiuti usati dagli Stati nella gestione interna dell’immigrazione; del fondo Global Europe in sostituzione del Fondo fuori bilancio precedente, della parità gender del post Cotonou del 2021 cui gli africani sono contrari. Gli africani ascoltano ed aspettano gli aiuti. Oppure ripetono la colpevolizzazione razzista afroamericana made in Usa che in realtà non li riguarda.
Oltre le futilità però è avvenuto qualcosa di grave. Nell’ordine, dal 2011 la deflagrazione europea di instabilità e terrorismo, l’assenza di un piano di rete e garanzie a debito e corruzione, gli ostacoli alle odiate multinazionali, uniche che avessero capitali privati per gli investimenti e potessero unire centinaia di tribù in un mercato unico continentale, poi il sostegno ai presidenti ereditari oltre il temo limite in attesa dell’immancabile golpe, l’intervento di una presenza militare scarsa ed ignorata, senza tollerarne morti e costi, in attesa del suo tracollo, per di più senza mai sapere cosa facesse la mano sinistra francese e cosa la mano destra del resto del corpaccione continentale fino a non riuscire a respingere il resistibile combinato disposto del terrorismo islamico, delle squadracce russe e dell’immigrazione clandestina, mentre investimenti e corruzione in abiti arabi invadono l’Europa e l’Africa si fa ombelico del terrorismo mondiale. La voglia di isolare e ignorare l’Africa è tanta. La cosa più grave di Bruxelles, nell’incertezza e nel timore del coinvolgimento, invece di farsene carico, è l’attesa del collasso definitivo degli sbattimenti militari e finanziari francesi in Africa. Già gli Usa, in nome del tabù dell’interferenza, si comportano così; purtroppo la geografia non lo permette agli europei.
Anni fa, si diceva che la politica europea, malgrado i tanti soldi spesi, rischiasse di risolversi in un disastro economico africano. Ora dopo dieci anni il disastro c’è, urge un bagno di realismo.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.