Milano 13 Giugno – I quotidiani assomigliano sempre più alla televisione della sera prima e la tv al Minculpop di un passato tutto da dimenticare. La carta stampata si rifugia nella cronaca che la tv le commina per evitare di pensare.
Di fronte a un mondo della comunicazione che ci sommerge quotidianamente di «informazioni che non producono conoscenza», compito dei media di carta dovrebbe essere quello di fornire una spiegazione dei fatti che produca conoscenza, cultura politica, coscienza civica. Invece, accade ciò che Croce aveva già denunciato anni fa: il nostro giornalismo teme di pensare, ha paura di pronunciarsi, evita di compromettersi.
Ma, così facendo, viene meno alla propria funzione, che dovrebbe essere appunto quella di individuare il nesso causale fra i fatti e spiegarne la logica. I fatti, così come sono raccontati, prima dalla televisione, poi dai giornali che ne sono l’eco, non significano nulla; al massimo – limitandosi a elencare gli scandali senza spiegarne e ragioni – producono ondate populiste di rifiuto della politica. La cultura civile non fa un passo avanti, neppure a spingerla, e il giudizio che si diffonde è il rigetto della politica alla quale si attribuiscono anche colpe che non ha. Di questo passo, il Paese finisce nelle braccia del primo demagogo di turno come era successo nel ’22, quando – di fronte agli incidenti del dopoguerra – gli italiani si erano affidati a Mussolini nella convinzione che avrebbe messo ordine, dopo di che sarebbe stato facile liberarsene. Abbiamo visto com’è andata a finire. È questa, del resto, la ragione per la quale io diffido di Matteo Renzi. Si era presentato come un innovatore, che avrebbe cambiato il sistema politico, rottamando la vecchia classe dirigente. Si è ridotto a essere un presidente del Consiglio analogo a quelli che lo hanno preceduto e che lui avrebbe dovuto mandare a casa, in pensione.
È aumentata la spesa corrente, che alimenta il debito pubblico, la vera palla al piede del Paese creata dai governi del passato; è cresciuta la disoccupazione, soprattutto giovanile, perché il sistema economico – massacrato dalle tasse – non produce ricchezza e non crea nuovi posti di lavoro. L’economia è ferma e non dà segni di volersi e potersi muovere speditamente come dovrebbe. È del tutto inutile che il capo del governo distribuisca ottimismo ogni volta che compare in pubblico. Se si limita solo a distribuire ottimismo e l’Italia resta com’è, lui, di fronte all’assenza di cambiamento, perde consensi. Dovrebbe, invece, fare ciò che non è riuscito a Berlusconi dopo il 1994: ridurre drasticamente la pressione fiscale e riformare l’apparato burocratico, delegiferando e deregolamentando. Abbiamo uno Stato troppo presente a ogni livello, vuoi per le troppe tasse, vuoi per la troppa burocrazia. Qualche buona iniezione di mercato ci farebbe bene. Perché non la si fa? Renzi, che finora ci ha raccontato che lui chiama pane il pane e vino il vino, sull’argomento non si pronuncia, limitandosi a promettere riforme che, poi, non ha palesemente alcuna intenzione di fare – perché sa che gli costerebbero il sostegno della Pubblica amministrazione dalla quale dipende come dipendevano i suoi predecessori – e che non farà. Ma, in tal modo, crea le condizioni del proprio stesso fallimento. Le prime avvisaglie sono già comparse.
Che piaccia o no, è una questione di cultura politica. L’Italia è ferma al 1948, al compromesso istituzionale fra quella parte della Resistenza democratica che voleva portare il Paese in Occidente e quella che lo voleva portare all’Est, fra le democrazie popolari dell’Europa centrale e orientale, dominate dall’Unione Sovietica. Paghiamo il prezzo di non aver saputo ripensare il fascismo chiedendoci, innanzi tutto, che cosa aveva rappresentato, e ancora spesso rappresenta, per molti italiani e che cosa è stata la vittoria sul fascismo da parte di un Resistenza che, in realtà, è stata una doppia Resistenza; una democratico-liberale, l’altra filosovietica. Il duplice equivoco continua a condizionare la nostra cultura politica e a impedire al Paese di entrare nella modernità. A suo modo, quello di modernizzare l’Italia era stato anche il tentativo che aveva fatto il fascismo, ma si sa a quale prezzo; non si baratta la libertà con la modernità. Il prezzo che continuiamo a pagare è che non siamo usciti dal guado. Siamo ancora un Paese a metà di mercato e a metà corporativo, collettivista e dirigista. Io che sono vissuto a lungo in Urss e ho conosciuto le democrazie popolari constato che ogni giorno l’Italia assomiglia sempre più all’Urss e al socialismo realizzato: una serie infinita di ostacoli burocratici, di lentezze amministrative – dove occorrerebbe maggiore dinamismo – e la presenza di uno Stato capace solo di opporre ostacoli a chi vuole darsi da fare; una popolazione che si aspetta dallo Stato ciò che essa stessa dovrebbe fare e che sta perdendo la capacità di industriarsi e di risolvere da sé i problemi che si aspetta sia la Pubblica amministrazione a risolverle. Con la sua retorica ottimistica, Renzi avrebbe dovuto dare la sveglia all’Italia addormentata da tale cultura politica. Se non lo ha fatto, e non lo fa, è perché anche lui è figlio di questa stessa Italia. Sveglia ragazzo!
Piero Ostellino (Il Giornale)
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