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Sul degrado delle periferie il prof Cesare Stevan: “Occorre leggere il territorio, coinvolgere i cittadini”

Milano

Da pochi giorni è scomparso il prof. Cesare Stevan, Preside per un ventennio della Facoltà di Architettura.

Prof Cesare Stevan
prof Cesare Stevan

Nell’intervista che segue, datata 2017, emergono la profonda umanità, la conoscenza delle criticità, l’eventuale soluzione rispettosa del “sociale”.

Oggi è spesso la violenza la risposta al disagio, alla convivenza di etnie diverse, alla strisciante criminalità esistente in alcuni luoghi decentrati che chiamiamo, per facilità e per una forma di sintesi imperfetta, periferie. E le periferie ormai, nell’immaginario collettivo, sono diventate sinonimo di degrado ambientale e sociale, un male inevitabile, una realtà irreversibile: uno spazio urbano e umano, insomma, senza speranza. Si potrebbe dire: luoghi dell’“assenza”, assenza di identità, di storia, di regole. Una parte di città in ombra, in cui spesso sono deficitari i servizi, la Bellezza, la manutenzione, il verde. Perché? Di chi la colpa?

A queste domande risponde il prof Cesare Stevan, professore emerito di Architettura Sociale e Preside “storico” della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.

“Attualmente il problema delle periferie si può dire che sia un problema mal posto. Nell’era in cui è dominante il concetto di rete perde gran parte del suo tradizionale significato il rapporto tra il centro urbano e ciò che sta fuori di esso. E’ per questo motivo che, in generale, preferisco parlare di parti del territorio e della città.  Il  problema politico quindi non è il “dove” si situano, ma il “come” vengono gestite le varie parti di una città. Il degrado, così come una buona qualità urbana, si possono trovare dovunque, in centro come nelle cosiddette periferie. E’ opportuno superare una generalizzazione che tende sempre e comunque a parlare di “periferie”, aggiungendo d’ufficio il qualificativo “degradate”. Il degrado urbano denuncia sempre una evidente mancanza di capacità politica di gestire la cosa pubblica (il territorio, il patrimonio edilizio, i  beni architettonici e ambientali) e una adeguata valorizzazione delle risorse, naturali, ma soprattutto umane di un territorio. Non facciamo d’ogni erba un fascio e analizziamo attentamente le diverse parti di una città considerando con realismo quello che sono e quello che potrebbero essere in un sistema ampio di relazioni. Limitiamo l’uso del termine periferia alle periferie storiche, frutto di esperienze lontane e bisognose di profondi rinnovamenti urbanistici, come è stato nella nostra città il caso delle grandi aree dismesse della Bovisa e della Bicocca. Riconosciamo inoltre l’impegno con cui l’urbanistica (moderna e contemporanea)  da più di mezzo secolo ha  proposto e sperimentato  modelli organizzativi tesi a interpretare le  trasformazioni culturali ed economiche che hanno via via mutato il contesto sociale delle nostre città. Così, mentre per il passato si può pensare che sia esistita una differenza sostanziale nel modello urbano tra ciò che veniva considerato il centro urbano e la gerarchia di valori (economici, di servizi e sociali) che ne conseguiva, oggi, e per il prossimo futuro, è utile attenersi a un concetto di rete in cui si può affermare che tutto può essere al tempo stesso “centro” e ” periferia ”. Un sistema a geometrie e centralità variabili.  Centralità diversificate in base alle qualità che sanno esprimere e ai progetti di sviluppo che sanno definire. Milano presenta un quadro estremamente interessante  di interventi di iniziativa pubblica e di privati, soprattutto per quanto riguarda l’edilizia residenziale, che va dai quartieri di edilizia economico popolare dei primi anni del ‘900  alle esperienze del villaggio dei giornalisti, a Milano San Felice e Milano 2.  Abitare lontano dal centro della città  non è sempre una condanna, può consentire una qualità della vita  migliore, ove  esista una classe politica attenta a una corretta gestione: adeguate dotazioni di  servizi, collegamenti efficienti, controllo sociale e prevenzione/repressione a partire dalle piccole cose che riguardano il quotidiano di ciascuno degli abitanti. Il caso del quartiere Stadera è degenerato al punto di non ritorno in cui  è oggi, perché per almeno trent’anni non si è fatto niente e sono prevalsi  atteggiamenti improntati alla tolleranza di violazioni e violenze che non dovevano essere tollerate.

Ma oggi la periferia all’attenzione dei media gode di una pessima fama, la rappresentazione del degrado sociale e criminale. Quale l’origine?

“La fama negativa nasce dalla crisi della periferia storica, quella legata al modello di prima industrializzazione. Si costruivano case dormitorio per gli operai attorno alle fabbriche: nasce così con connotati negativi una “parte di città” priva di quella  composizione sociale che rende culturalmente sollecitanti i rapporti tra i cittadini. Quartieri  con edifici di scarsa qualità e sovraffollati. Un ambiente caratterizzato da forti tassi di inquinamento, privo di verde e di servizi. Nell’immaginario collettivo si è consolidata questa immagine delle periferie  ed è estremamente difficile cancellarla. Anche quando con eccellenti interventi urbanistici si pensa di esserci riusciti, basta un nulla a richiamarla e a farla rivivere come immagine egemone: “la periferia degradata”. Oggi che le fabbriche si sono riallocate sul territorio, che abbiamo trovato una soluzione ai principali problemi creati dalle aree via via dismesse dal vecchio modello di sviluppo della città fabbrica, oggi per sconfiggere irrevocabilmente la fama negativa della periferia dobbiamo puntare su una visione politica di ampio respiro e su un  patto sociale che metta al bando ogni speculazione di parte sulle condizioni delle periferie e delle parti degradate della città. Sembra predominante una volontà perversa di non gestire in positivo il quotidiano, di abbandonare, di dimenticare le condizioni di vita intollerabili di alcune parti di città, pensando che renda di più politicamente gestire il disagio o attendere l’occasione che giustifichi oggi  anche interventi repressivi. La buona politica, invece, dovrebbe definire una strategia di intervento che parta da una conoscenza adeguata delle diverse situazioni ed evitando di fare di ogni erba un fascio, sappia definire  tempi e priorità di un progetto di rinnovamento. Il tutto dovrebbe partire da un atteggiamento molto difficile nel nostro paese, quello che ha consentito qualche anno fa la rinascita di New York: “Tolleranza zero”. Ripristinare la legalità è l’inizio. E’ vero che le scritte sui muri, ad esempio, sono di gran lunga meno gravi di altre violenze che si attuano sulle persone o sulle cose, ma se permetti che i muri, le facciate degli edifici pubblici e delle scuole vengano imbrattate, senza alcun rispetto per gli altri e per l’architettura stessa avrai una ricaduta fortemente negativa sulla formazione e sui processi formativi degli alunni che guardano ogni mattina la loro scuola deturpata nella più totale indifferenza. Addio bellezza!  “Tolleranza Zero” non è la soluzione, ma l’avvio di un processo di responsabilizzazione, che per avere successo deve partire contemporaneamente dall’alto e dal basso, coinvolgere i cittadini richiamandoli alla loro storia e sollecitando una loro identificazione con i luoghi dove vivono. I cittadini vanno sollecitati alla difesa del proprio quartiere, aiutati nell’opera di rinnovamento. Si smetta di considerare queste zone, tanto più se degradate, solo un bacino di voti.

Praticamente, nell’immediatezza, che cosa si può fare?

“E’ evidente che occorre prioritariamente ricostruire la storia di un quartiere, dare un’identità ai suoi cittadini. Non è una cosa semplice, soprattutto con un mix di abitanti spesso molto diversi, ma occorre ristabilire questa identità in cui riconoscersi e non tollerare ciò che è intollerabile. Non lasciar spazio a ricatio  intimidazioni. Il ripristino della legalità è essenziale, anche con atti repressivi e apparentemente impopolari. Ma importante soprattutto è dare un futuro, definire scenari di sviluppo per il quartiere e per il miglioramento della vita dei suoi abitanti. E’ indispensabile  fare un progetto che  parte dal cercare i punti di forza, creare una gerarchia di interventi, identificare l’elemento di omogeneità dei cittadini, rifacendosi alla loro storia che sarà centrale nella ricostruzione della loro identità. Le risorse umane ci sono e sono le risorse da cui non si può prescindere. Si devono censire anche le risorse ambientali: rapporto tra parte edificata e verde, rete dei trasporti, restaurare eventuali strutture architettoniche degradate, per evidenziare le potenzialità della zona. La soluzione è saper leggere il territorio e avere una visione strategica del suo sviluppo, formulando in base a questa un progetto da rendere condiviso. Spesso le risorse disponibili sono di più di quelle necessarie. E’ evidente quindi che ci vuole impegno, tenacia e soprattutto la convinzione che il degrado non è ineluttabile e che anche quella parte di città che qualcuno definisce periferia può essere bella  e rappresentare  una nuova  centralità. E ci vogliono idee, invenzioni, fantasia, impegno politico.”

Una lezione che impegna conoscenza e sensibilità, che insegna come non si possa generalizzare se si vuole avere rispetto dell’uomo, della sua identità, della sua storia.

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