Quattro anni fa, 5 novembre, due di notte, a due giorni dall’election day Usa, Biden, pure in grande vantaggio, non era ancora conclamato vincitore. Diceva l’Associated Press, Non c’è ancora un vincitore. Otto anni prima, alle due e mezzo dii un martedì, era stata notificata l’elezione del Donald, vincitore tra i grandi elettori e sconfitto nelle percentuali popolari. Stenterello Biden ringraziò il Covid che gli permise di fare una campagna elettorale in assenza, con la scusa. Subito, già all’avvio della sua presidenza, apparve malato, malandato, un peone opaco senza un guizzo, un deputato da mezzo secolo anonimo, un comprimario, sopravvissuto a tutta la famiglia, né carne né pesce, ed in fondo, dopo il disastro Hillary ed il disastro Siria, era l’unica possibilità democratica. Zio Tom bianco di Obama, Biden era il meno bianco, il meno maschio, il meno woke possibile del fronte woke, l’unica faccia di bronzo adatta a proseguire e rivestire di democratico, la politica trumpiana.
Tutta la macchina democratica si mise a pompare la vittoria di Biden a valanga, come già aveva fatto per Hillary. Finì con una vittoria stentata. Dopo, per quattro anni, la macchina democratica ha affinato la sua lama giudiziaria, cercando di seppellire il Donald di cause e condanne che svariavano dal politico, al personale, dal criminale, all’abuso sessuale, allo spionistico, al business fino al fiscale. Nel frattempo, le urla sulle campagne social degli hacker filotrump orchestrate dal Cremlino, cavallo di battaglia di Hillary, erano scomparse, come si era ridotta a fantasma la criminalizzazione di Assad. I pessimi Accordi di Abramo, tanto condannati e vilipesi, finirono per restare unica ciambella di salvataggio democratica nell’inferno sempre più spaventoso mediorientale che rischiava di agganciarsi all’altro girone di fuoco russoucraino. L’asso nella manica c’era però, ed era l’ex giudice californiana indù, nera, giamaicana, ispanica, forse nativamericana, un pizzico palestinese, divenuta vicepresidente. Kamala Devi Harris, fior fiore dal mazzo delle Ocasio-Cortez, Omar, Pressley, Tlaib, tutte nere e musulmane, elette negli stati più bianchi, avrebbe dovuto rivitalizzare la presidenza Biden per sostituirlo a causa degli acciacchi. La Harris avrebbe realizzato il sogno naufragato con Hilary, la guida suprema femminile, nera, immigrata, meglio se giudice di casi di stupri e femminicidi. Barbie for president. Il non plus ultra per l’ideologismo democratico, per il trionfo del me-too alla Casa Bianca.
Purtroppo, la vice Kamala, dalla risata irrefrenabile fra Joker e Jerry Lewis, alla Casa Bianca si rivelò anche più pesce lesso di Jo il sonnolento. Tutte le battaglie iniziali, femministe, ecologiste, giudiziarie, finirono per essere tacitate e stoppate per i tremendi effetti controproducenti. Mentre Biden cercava di non mostrare troppo quanto copiasse la politica trumpiana, soprattutto sul fronte cinese, la Kamala venne proprio nascosta come un danno collaterale, dagli stessi democratici. Quando non fu più possibile nascondere l’arteriosclerosi di Biden, lo stesso Obama non pensò di affidarsi a Kamala ma propose una nuova convention per stabilire l’avversario di Trump alle presidenziali. Il tempo ridottissimo, sei mesi, il rischio di perdere milioni di finanziamenti e centinaia di delegati, costrinsero i dem a puntare sull’unico candidato istituzionale rimasto, la vicepresidente. Una candidata fortemente desiderata ma che non doveva essere messa alla prova dell’elettorato, immaturo, retrogrado, sciovinista, prigioniero del realismo dello sciocco buon senso.
Il 5 novembre è alle porte. I guru della campagna dem scuotono le teste. Per questo ciclo i voti dei maschi, bianchi e colorati, soprattutto giovani, non ci sono. Kamala ha il voto delle donne, ma non basta. Non basta difendere la politica anti-immigratoria basata sui muri e fili spinati, già giudicati a suo tempo razzisti. Non basta difendere il settore petrolifero, non basta evitare di parlare di tasse. Il rischio è che per la seconda volta vada in fumo la proposta della Presidentessa. Certo, sarebbe stato meglio se a metà mandato qualcuno avesse attentato a Biden e non invece a Trump. Musk, il cui peso sta spostando l’equilibrio della bilancia fra i contendenti alla Casa Bianca, se l’è chiesto infatti Perché vogliono uccidere Donald Trump? E nessuno sta nemmeno cercando di assassinare Biden/Kamala. Perché nessuno attenta a Biden ed ad Harris???? Risultato, Musk è finito sotto indagine. Altra strada potrebbe essere quella di Evita, ma negli Usa la First Lady non eredita il trono.
Come quattro anni fa, solita inutilità dei sondaggi, solita faziosità tutta unilaterale dei media, solita pretestuosità delle macchine istituzionali, tutta tifosa di una parte. Solito fotofinish che ribadisce la spaccatura interna totale degli Usa. E prosegue il disegno del Cosa non si fa per avere la Presidentessa. Il sogno, che ieri m’illuse, oggi m’illude, della Presidentessa. Bella più di tutte ma non trovata, effimero profilo cinereo indaco all’orizzonte, dell’isola della Presidentessa non trovata.
Purtroppo, tocca sempre metterla, sta Presidentessa, alla prova elettorale.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.