Procedono a ritmo lento le liberazioni degli ostaggi a Gaza. Sembra già un miracolo che non siano riprese le ostilità che al momento sembrano spostarsi in Cisgiordania. In una decina di settimane, poco più di due mesi, dovrebbero tornare i prigionieri ancora vivi dai tunnel. Scarse le possibilità di successo dei diktat per una liberazione massiva immediata. Malgrado le grandi perdite Hamas dimostra che i suoi sequestri sono a prova di intelligence nemica, che pure è una delle migliori del mondo. Parallelamente ferve il dibattito sul futuro del piccolo territorio, gremito da una enorme popolazione gazawi, che finora è andata, sotto bombardamenti, terrori ed evacuazioni, spostandosi in un continuo eremitaggio senza risorse. Malgrado ciò non risultano informazioni significative su morti di fame e di sete.
L’annuncio bomba del presidente Usa Trump, con al fianco un esterrefatto e felice premier israeliano Netanyahu, su una futura Gaza resort turistico di lusso senza palestinesi, ha suscitato proteste infiammate dalle più diverse sedi e non è stato meglio specificato se non come l’abbozzo di una idea. Come spesso capita con Trump, però, sotto il modo provocatorio di esporre le cose, si nascondono progetti concreti discussi e elaborati da tempo e da altri interlocutori ai tavoli diplomatici. Nel caso specifico l’argomento è il futuro di Gaza, vale a dire la sua ricostruzione che le Nazioni Unite stimano in un costo di $53 miliardi, poi ampliato a 80 e la Banca Mondiale in €18 miliardi. Ci sono 42 milioni di tonnellate di macerie, 200mila edifici abbattuti e non si sa quanti ordigni inesplosi. Ci vorranno 14 anni solo per fare pulizia. Gaza è grande quanto la più piccola provincia italiana per superficie, quella di Prato dove vivono 260mila persone, un decimo dei gazawi.
Sotto l’amministrazione Biden sono stati condotti numerosi colloqui con i paesi arabi della regione sull’argomento ricostruzione. Già ad aprile. dopo l’attacco iraniano ad Israele, arabi ed ebrei avevano convenuto sull’idea di un progetto di affido del litorale di Gaza ai sauditi ed altri emirati con l’esclusione del Qatar. L’idea a settembre è divenuta accordo tra alcuni stati del Golfo, ribadita a febbraio presso il World Government Summit di Dubai. Così il piano immagina l’eclatante sbocco mediterraneo dell’Arabia Saudita, una presenza immobiliare di investimento, comunque gestionale, senza determinazioni statuali o militari. La novità introdotta da Trump sarebbe appunto la garanzia di sicurezza militare, oltre alla volontà di farsi socio, non è chiaro se personalmente o a nome degli Usa, di questa immobiliare in senso lato. Questi piani e progetti richiamano alla memoria la diplomazia fumettistica nel ’90 dell’Ambasciatrice americana Glaspie in Iraq e del Presidente Bush senior che con colloqui e messaggi lasciarono trasparire al presidente iracheno Saddam Hussein una sostanziale indifferenza sulle dispute territoriali con il Kuwait nel periodo immediatamente precedente alla prima guerra del Golfo.
Gli Stati Uniti, repubblicani e democratici, politicamente prendono sul serio nell’area solo Israele ed i terroristi. Trump prende invece finanziariamente molto sul serio gli Stati del Golfo ma con un approccio più da presidente di un Fondo che da inquilino della Casa Bianca. È convinto che enormi promesse di danaro possano convincere Egitto a Giordania ad accettare alla fine qualunque cosa, Egitto, Giordania, Siria, Libano e Yemen sono in enormi difficoltà economiche. Il danaro saudita ed emiratino potrebbe aiutare a patto di trovare appropriate motivazioni. Negli occhi di Salman a Riad sfavilla il miraggio di una gestione politica a modo proprio del litorale di Gaza, con l’arrivo ad esempio di decine di migliaia di lavoratori marocchini. Determinerebbe la conquista di due mari e la leadership saudite sul Medio Oriente arabo, con la sicurezza della copertura militare di Israele, da rivestire diplomaticamente con soluzioni di presenza multipolari da trovare in casa Onu che dovrebbero attutire ad esempio la contrarietà al momento assoluta della Turchia e trovare l’expedit di Russia e Cina. Amman e Riad hanno già cementato un’alleanza dinastica con l’unione in matrimonio delle reciproche famiglie reali giordana Husseine saudita al Saif.
Gli accordi nel Medio Oriente a due teste (Arabia ed Israele con l’incomodo dell’Iran) esistono già dopo una lunga e secretata bollitura esercitata a fuoco lento dall’amministrazione Biden che a sua volta usava il brodo di coltura dei precedenti accordi di Abramo. Israele ed il fantasma dell’Autorità palestinese sono owner ufficiali dell’area e per ragioni diverse non lo possono rimanere. È terra araba che in qualche modo deve tornare agli arabi ma gli Stati arabi, maxime l’Arabia saudita, non la possono richiedere. Ecco allora che con grande strepitio Trump l’offre loro platealmente promettendo una presenza militare che si tradurrà solo nel mantenimento dei contractor americani già presenti. Il tycoon si prende tutte le accuse di razzismo e di violazione dei diritti umani, contenuti nei desiderata di tutti i paesi della regione, arabi e no, che vogliono disinnescare il problema palestinese utile ormai solo alle politiche destabilizzanti iraniane. La grande quantità, oltre i limiti dei trattati di pace, di tank egiziani schierati in Sinai non sono rivolti contro Israele, ma contro i gazawi. Nelle trattative russoamericane sull’Ucraina avrà posto sicuramente anche la posizione di Mosca, cacciata dalla Siria ed al momento impegnata a trasferire armi e bagagli in Cirenaica, sul Medio Oriente. Se otterrà uno spazio, non si opporrà. Contrari restano restano l’ambiguo Qatare la Turchia il cui primo obiettivo è guadagni territoriali e leadership in Siria
L’immaginazione di Trump corre avanti però, oltre il periodo della sua presidenza. Nel tempo, cioè, quando negli Usa riesploderà la caccia giudiziaria e burocratica contro di lui. Ecco allora che il neoprotettorato saudita di Gaza potrebbe offrire un ritiro di grandeur economica ed un rifugio strategico peccatorum per lui e famigli. La ricompensa per aver donato ai sauditi l’allargamento politico insperato potrebbe tradursi in una nomina reale, una riedizione del Lawrence d’Arabia, alias un nuovo Donald d’Arabia o di Gaza con tanto di jus flagelatii verso i persecutori, presenti e passati, che gli capitassero a tiro. Sicuramente gli eredi dell’attuale presidenza, di qualunque segno politico, non toccherebbero qualunque nuovo equilibrio che avesse soffocato le cause profonde dell’irredentismo laico e religioso terrorista e portato in campo americano tutta l’area nel nome di accordi estesi di Abramo. Fino alla prossima sorprendente scossa antisistema stile 1979.
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Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.