Sì, da leggere e meditare, soprattutto dalla sinistra lombarda. Una lettera-reportage, quella pubblicata dal Corriere, che evidenzia in modo lampante la bontà dell’intuizione, poi applicata in molte realtà nel nostro paese, di una convenzione pubblico-privato nella sanità. E come si dimostri una soluzione ottimale, rivolta a tutti, con un “servizio” medico e clinico spesso di eccellenza e una rete di Centri diagnostici e di analisi che si dipanano in tutto il territorio.
La nostra Sanità pubblica, pur con alcune difficoltà, sa anche offrire strutture di grande efficienza e servizi attenti alla persona del malato.
Riportiamo qui di seguito le inquietanti esperienze fatte da un nostro connazionale in Inghilterra
Il racconto del corrispondente del Corriere della Sera, alle prese con ospedali pubblici (dove accade di essere «dimenticati») e privati, che sono carissimi: per 4 giorni di degenza, senza interventi particolari, il conto è di 10mila euro
Luigi Esposito : Curarsi a Londra: «Un anno vissuto pericolosamente»
Un anno vissuto pericolosamente: non è il titolo di un film, ma la cronaca di 12 mesi passati nelle mani della sanità inglese, una giostra impazzita dove ci si gioca la vita.
Tutto comincia nel febbraio dell’anno scorso. Avevo già sofferto di attacchi di diverticolite a Milano, ma me l’ero cavata con antibiotici orali: adesso però i dolori sono forti, è sera e non c’è la possibilità di chiamare un medico. Questo perché a Londra non c’è un dottore di base che ti ha in carico: si è assegnati a un centro sanitario pubblico e ogni volta ci si ritrova davanti un medico diverso, in una girandola dove nessuno conosce te e la tua storia clinica (mesi fa i giornali hanno «scoperto» che magari avendo un dottore unico si ridurrebbero tante morti in eccesso, ma questa è un’altra storia).
Non significa che non esiste più il GP (General Practitioner), solo che non ne hai uno tuo, ce ne sono tanti che fanno capo al tuo centro sanitario pubblico e ogni volta ti vede un medico differente.
In questi centri territoriali ci si va su appuntamento, ma riuscire ad averne uno è un’impresa e dunque tutti vanno agli Accident&Emergency (A&E) degli ospedali, cioè i Pronto Soccorso, anche per le cose banali, perché è l’unico modo di farsi vedere da un medico (e per questo gli A&E sono un girone dantesco). Il più vicino a me è il Royal Free Hospital di Hampstead: è famoso, è quello dove hanno somministrato i primi vaccini anti-Covid, quando Londra ha battuto tutti sul tempo. Possiamo quindi sperare bene, forse.
La prima cosa che fanno, dopo che si viene accettati in un ospedale inglese, è infilarti una cannula nel braccio: nel caso in cui si debbano somministrare medicinali, spiegano. A prescindere da quello che tu possa avere: quindi si finisce in sala d’attesa, per ore e ore, con un ago in vena, che comincia a far male.
Quando finalmente riesco a fare gli esami (sangue, Tac), decidono per il ricovero: diverticolite acuta, ho bisogno di antibiotici per endovena, sentenziano. Problema: non c’è posto in reparto, e allora mi sistemano su una barella nel Pronto Soccorso. E lì passo la prima notte, ovviamente senza chiudere occhio: attorno a me il caotico subbuglio del servizio di emergenza, luci accese, conversazioni concitate, pazienti che gemono.
Ma mi è andata bene: nei Pronto Soccorso inglesi le attese anche di 12 ore sono ormai la norma, con esiti catastrofici. È calcolato che questo ingorgo è la causa di almeno 14 mila (!) decessi all’anno: come hanno denunciato poche settimane fa le associazioni degli infermieri, ormai la gente muore nei corridoi del Pronto Soccorso, dopo una vana attesa.
È solo l’indomani che finalmente mi trasferiscono in un reparto. E qui cominciano le scoperte. Innanzitutto, gli ospedali inglesi sono interamente gestiti dagli infermieri: i medici sono un miraggio, si affacciano solo una volta al giorno per pochi secondi, poi spariscono. In secondo luogo, non c’è un inglese a pagarlo a peso d’oro: infermieri e dottori vengono dai quattro angoli del mondo, tranne che dall’Inghilterra. In sostanza, si è ricoverati in un ospedale «in Inghilterra», ma non in un ospedale «inglese». Non è questione di essere xenofobi, o peggio razzisti, ma anche i giornali locali hanno evidenziato che non c’è una reale verifica delle qualifiche, ottenute all’estero, di tutto questo personale sanitario: quindi si è nelle mani di dottori e infermieri che Dio sa dove e come si sono formati.
Ma le sorprese non sono finite. La prima giornata passa senza che nessun dottore mi visiti: le terapie continuano, somministrate dalle infermiere, ma dottori zero. La seconda mattinata è lo stesso: e allora mi insospettisco. Esco in corridoio, scorgo un medico con un codazzo, li blocco e chiedo spiegazioni: controllano su un computer e la risposta è «si sono dimenticati di registrarti, nessuno sapeva che eri qui». Andiamo bene! E se al posto mio ci fosse stato un anziano poco presente a stesso? Sarebbe rimasto abbandonato per settimane?
A ogni modo, dopo tre giorni mi dimettono. Ma purtroppo, lo stesso problema si ripresenta a luglio: e dunque torno al Royal Free, dove mi ricoverano di nuovo, dopo esattamente la stessa trafila, inclusa la prima notte su una barella. Ma stavolta succede di peggio: al terzo giorno di degenza l’infermiera mi attacca la flebo di antidolorifici, ma niente antibiotici. Chiedo spiegazioni e mi risponde che non ha istruzioni di somministrare antibiotici: e allora qui che ci sto a fare, dico io? Finita la flebo esco in corridoio e interrogo la caposala: non sa nulla, dice che deve chiedere a un dottore. Dopo un po’ arriva il responso: c’è stato un errore, mi avevano sospeso la terapia per sbaglio! Di nuovo: se al posto mio c’era un anziano un po’ svanito?
Me la cavo anche questa volta, ma a gennaio sto di nuovo male, sintomi diversi, sembra una cosa più seria. È pomeriggio e riesco a parlare a telefono con una dottoressa del centro medico pubblico: no, non fanno visite a domicilio, mi spiega, posso andare lì da loro, se sono in grado, ma comunque non fanno neppure gli esami del sangue.
Non resta che il Pronto Soccorso: ma stavolta sono un po’ spaventato, e dopo le esperienze sconcertanti al Royal Free decido di andare in un ospedale privato. L’accoglienza è rapida ed efficiente, fanno tutti gli esami del caso (anche troppi), scoprono un’infezione diffusa e decidono per il ricovero. Il posto ovviamente è confortevole, stanza privata con tutti i servizi, ma anche qui, sorprendentemente, non ci sono praticamente inglesi (lo specialista che mi ha in carico è cinese) e tutto è gestito dagli infermieri. Ma lo choc maggiore è al momento della dimissione: per quattro giorni di degenza, senza nessun intervento particolare, solo test e terapie antibiotiche, il conto è di oltre 10 mila euro. E meno male che non si trattava di una delle cliniche del centro, quelle dove vanno i reali, se no bisognava accendere un mutuo.
Insomma, a Londra si è fra Scilla e Cariddi: una sanità pubblica che cade a pezzi e una privata che costa un occhio della testa. Quando avevo chiesto a una collega che sta qui da 25 anni come si regolasse, mi aveva risposto: «Io prego»! Seguirò il consiglio.
Gli inglesi forse non credono in Dio, ma sicuramente credono nell’Nhs (National Health Service, ossia il Servizio sanitario nazionale): in un Paese largamente post-cristiano, la venerazione per la sanità pubblica è assurta al ruolo di religione di Stato. Creato nel 1948 per volere del governo laburista di Clement Attlee, l’NHS è parte dell’identità collettiva britannica come la birra tiepida e il fish&chips: il principio di cure universali, pubbliche e gratuite resta un dogma intangibile (e irriformabile). Solo gli inglesi potevano mettere la celebrazione della Sanità al centro della cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi del 2012 a Londra, con tanto di pazienti (finti) che ballavano sui letti. E durante la pandemia, in pieno lockdown, una volta alla settimana, alle 8 di sera, l’intera popolazione si affacciava sull’uscio di casa per tributare un corale applauso a medici e infermieri impegnati contro il Covid. Dio salvi l’Nhs.