L’Italia sta morendo di burocrazia: ecco cosa serve per aprire un ristorante a Genova e a Nizza

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Milano 25 Giugno – La burocrazia ha lo straordinario potere di farti sentire stupido. Per quanto uno stia attento si dimentica sempre qualcosa, e le grane arrivano puntuali. Come quella capitata a Giovanni Vivarelli, imprenditore genovese sessantenne da sempre attivo nel settore della ristorazione: «Stavamo mettendo a posto il nuovo locale. Un giorno arrivano gli ispettori del lavoro e ci chiedono il piano di sicurezza e coordinamento». Il piano è previsto per legge, e ha senso nei grandi cantieri. «Il nostro era un cantiere piccolo: abbiamo verniciato i muri, posato il parquet, rifatto i bagni e poco più. La ditta che ha eseguito i lavori aveva tutti i dipendenti in regola. Ma niente da fare, mancava quel piano: la sanzione ci è costata più di 2000 euro».

Per aprire il ristorante di cui è comproprietario insieme al figlio Daniele, Vivarelli ha attraversato una landa di gabelle da pagare e carte da consegnare ogni volta a uno sportello diverso. Un cammino lungo due mesi. Si comincia con il notaio per la costituzione della società: nel caso di Vivarelli e figlio è una Sas, più spesso è una Snc, il costo del notaio è grossomodo lo stesso, attorno ai 1500 euro. Dopo essersi registrata alla Camera di commercio, all’Inps e all’Inail, e avere firmato il contratto di acquisto o di affitto del locale, la nuova società presenta il progetto al Comune.

 

«Per fortuna – dice Vivarelli – il nostro non è in zona 1», quella cioè che a Genova coincide con il centro storico e con il fronte mare e che richiede opere aggiuntive, come ad esempio l’insonorizzazione delle pareti, una seconda toilette e un apposito spazio interno per la raccolta differenziata. Comincia poi la trafila dei corsi di formazione, quello per il certificato Haccp, che dimostra il rispetto delle leggi di igiene ambientale, e quello per la prevenzione, protezione e il pronto soccorso: il primo obbligatorio per titolare e dipendenti, il secondo solo per il titolare, entrambi a pagamento.

Fin qui niente di sconvolgente. Le assurdità cominciano con l’iscrizione al Conai, Consorzio nazionale imballaggi, cui ogni titolare di ristorante o bar deve versare un obolo di 5,16 euro. Se il ristorante o bar, come è ovvio, vende alcolici deve comunicarlo all’Agenzia delle dogane, su carta con marca da bollo da 16 euro, anche se lo ha già comunicato al Comune quando ha presentato il progetto per l’autorizzazione.

Per pagare la tassa sui rifiuti il barista-ristoratore deve iscriversi all’Amiu anche se la tassa sui rifiuti è di competenza del Comune che già possiede tutti i dati del nuovo locale. Se il ristorante ha un’insegna, questa in molti casi deve essere autorizzata dalla Sovrintendenza, essendo molti palazzi sotto vincolo, e in ogni caso deve essere autorizzata dal Comune, che poi pretende un canone annuo di 90 euro. Se il bar ha un calciobalilla, un flipper o un biliardo, deve versare all’Agenzia delle dogane, rispettivamente, 600, 1000 o 3800 euro l’anno.

PER NIZZA BASTANO DUE SETTIMANE

Questa matassa fiscale che in Italia per essere sbrogliata richiede due mesi di pazienza e più di 8 mila euro di spese, nella vicina Francia costa meno in termini di denaro e molto meno in termini di tempo. «In due settimane abbiamo fatto tutto», dice Fabio Gnech, imprenditore cuneese quarantenne titolare di un ristorante nella centralissima place Masséna, a Nizza. La base è identica: si costituisce una società, si presenta il progetto al Comune, si affida a un commercialista la gestione della contabilità. Delle altre tasse, però, in Francia non c’è traccia: la domanda al Comune per i déhors è gratis, quella per l’insegna pure, flipper e calcetti sono esentasse e i corsi di formazione, oltre ad essere facoltativi, li paga lo Stato.

«L’unica vera preoccupazione – dice Gnech – è il contratto. In Francia l’affitto ha durata illimitata, sempre che l’affittuario paghi regolarmente». In Italia invece il proprietario del locale, dopo sei anni, può cambiare idea e recedere. «Questo lega i gestori dei locali, gli impedisce di fare grandi investimenti». In Francia, spiega Gnech, il contratto d’affitto può durare tutta la vita e proprio per questo, prima di firmarlo, viene studiato e discusso in ogni sua virgola. «Di norma ci si rivolge a un avvocato, cosa che abbiamo fatto io e miei due soci». Con l’aiuto dell’avvocato, sono riusciti ad aggiungere un paio di clausole a loro favore, compresa una riduzione della rata mensile nei primi tre anni. Tolta questa consulenza legale, costata a Gnech e soci 2000 euro di parcella, il resto è stata una passeggiata.

In Francia le pratiche sono talmente semplici che uno, anche se inesperto, può sbrigarsele da sé. Prendiamo i déhors: in Italia il progetto deve essere depositato in Comune con un versamento di 400 euro che il Comune giustifica come contributo alle spese della conferenza dei servizi, ossia al gruppo di funzionari comunali che devono valutare quel progetto. «In Francia niente di tutto ciò, per carità. Basta – dice Gnech – indicare il numero, i modelli e il materiale con cui sono fatti tavolini, sedie e eventuali ombrelloni del déhor. Il Comune valuta in base all’estetica, ad esempio vieta le sedie in plastica o quelle sponsorizzate. E non c’è nessun versamento».

Il ristorante di Gnech è al piano terra di un palazzo vincolato dalle Belle arti cui anche qui, come in Italia, va chiesto il permesso per poter affiggere una o più insegne. La differenza è che il permesso è gratis, e non esiste alcun canone comunale da pagare ogni anno per il solo fatto di avere un’insegna. Anche in Francia bisogna versare una tassa annuale alla Spaem, equivalente della Siae, che però è pari a un sesto della tassa italiana, 50 euro anziché 300. I corsi di formazione per ottenere il certificato Haccp sono facoltativi, «l’importante – spiega Gnech – è che il locale sia a norma, che usi in modo corretto le celle frigorifere, che non abbia prodotti scaduti».

Francesco Margiocco  – La Stampa

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