Milano 23 Luglio – Il luglio 2015 non verrà ricordato per l’esplosione del caldo africano, ma per la definitiva caduta di un’illusione che molta brava gente ha coltivato per anni e anni in Italia. L’illusione, il sogno, il miraggio era che esistesse anche in casa nostra una sinistra di governo capace di guidare una nazione o almeno le grandi città. Operando meglio dei suoi avversari di destra o di centrodestra. In queste ultime settimane, anche i più distratti si sono accorti che non è così. E non soltanto per il disastro che la sinistra greca ha compiuto, e continuerà a compiere, in un Paese già stremato e sull’orlo del fallimento.
Abbiamo sotto gli occhi ben più di un esempio italiano, tutto rosso, tutto con il timbro degli eredi del Pci, oggi camuffati da democratici o sotto altre sigle. L’elenco è terrificante. In Sicilia il governo regionale guidato da Rosario Crocetta era già in crisi da tempo. Quel personaggio singolare per il suo aspetto da vecchio ganimede di provincia, con i capelli tinti per sembrare più giovane, aveva già perso per strada la bellezza di trentasei assessori.
E adesso è alle prese con l’enigma della telefonata ricevuta dal suo medico personale che si augurava di eliminare la figlia di Paolo Borsellino, una signora per bene, l’ultimo assessore dimissionario. Oggi si discute se questo desiderio folle ci sia stato oppure no. Ma un fatto è certo: il governo Crocetta è morto e sepolto. Prima o poi, i siciliani dovranno eleggerne un altro. E non sarà il sinistro Rosario a entrare una seconda volta nella reggia del Palazzo dei Normanni.
Anche il tragico caso di Roma si concluderà con le dimissioni del sindaco Ignazio Marino. Sotto i colpi dell’inchiesta su Mafia Capitale, se ne sono già andati parecchi assessori. Il Campidoglio è una baracca che si sta sgretolando giorno dopo giorno. La prima città italiana non ha più una giunta accettabile e in grado di amministrarla. La tenacia di Marino nel rifiutarsi di gettare la spugna è ormai priva di senso. E una Roma di sinistra, ridotta a una trincea di testardi incollati alle poltrone, dovrà chiudere bottega. Per affidarsi a un’altra maggioranza e a un nuovo sindaco.
Milano sembrava immune dal virus dello sfascio. La giunta rossa di Giuliano Pisapia appariva abbastanza salda. Poi il sindaco ha commesso l’errore di annunciare che non si sarebbe più presentato alle prossime elezioni comunali. E ha generato un sisma per ora non disastroso.
Si è dimessa la sua vice e a Palazzo Marino, il municipio ambrosiano, si stanno già avvertendo altre scosse. È un pio ricordo l’arrivo trionfale di Nichi Vendola in piazza del Duomo per rivendicare a se stesso la vittoria. Adesso è cominciata la quaresima e nessuno conosce come si concluderà.
La verità è che la sinistra ha un doppio difetto: non sa governare e non vorrebbe governare anche quando i voti la obbligano a farlo. Appena qualcuno dei suoi conquista una poltrona importante, i compagni s’impegnano allo stremo per mandarlo al tappeto. Esiste in proposito un esempio che merita di essere citato. Risale all’ottobre del 1988, dopo la prima caduta di Romano Prodi.
Il Professore era stato mandato a casa dal suo alleato più infido: Rifondazione comunista. Me lo ricordo bene quel partito tossico. Il presidente era Armando Cossutta, il segretario Fausto Bertinotti. Un’accoppiata da toccare ferro. E per aggiungere caos al caos, si divisero e l’Armando fondò un partitino tutto suo.
Al posto di Prodi, andò a Palazzo Chigi un pezzo da novanta forgiato nelle acciaierie del Pci: Massimo D’Alema. La novità fu subito definita storica. Era la prima volta che un figlio del Partitone rosso diventava presidente del Consiglio. Per di più Max era davvero un figlio del comunismo italico anche in senso biologico.
Suo padre, Giuseppe D’Alema, era stato uno dei dirigenti del Pci durante la guerra civile nel Ravennate. Appena un gradino al di sotto del famoso Bulow, ossia Arrigo Boldrini, un comandante garibaldino con la fama di guerrigliero dalla mano dura. D’Alema senior venne poi eletto alla Camera per ben cinque volte. Presiedeva la Commissione finanze e tesoro, poi passò a guidare il gruppo comunista.
Dunque il giovane Max possedeva tutti i quarti di nobiltà per essere riverito e coccolato dalle tante sinistre italiche. Invece accadde il contrario. L’anno successivo al suo ingresso a Palazzo Chigi, la Nato iniziò la guerra nei Balcani contro Slobodan Milosevic, il leader comunista serbo divenuto presidente della Repubblica federale di Jugoslavia. Era la fine del marzo 1989 e l’Italia, membro della Nato, venne chiamata a fare la propria parte.
Da quel momento D’Alema divenne l’Uomo Nero di una quantità di compagni, gente che era stata con lui nel Pci e adesso militava in Rifondazione e nei Comunisti italiani guidati da Cossutta. Max si trovò sbeffeggiato persino sul giornale che aveva diretto, l’Unità. Le pagine a fumetti di Sergio Staino lo ritraevano come un politicante vanitoso. Una tavola apparsa il 26 aprile 1999 si concludeva con un D’Alema azzimato che, nel brindare con Sophia Loren, diceva con sussiego: «Il dramma dell’Italia è che possiede una sola mente politica: la mia!».
Il 27 marzo 1999. un corteo delle sinistre contrarie alla guerra contro Milosevic, e al governo di Max, tentò di assaltare le Botteghe Oscure, ma fu respinto dalla polizia. Impossibili da respingere erano le frecciate velenose di tanti compagni. Mario Lunetta, narratore, saggista, già a Rinascita e all’Unità, scrisse una poesia intitolata «La ballata del D’Alema».
La prima strofa recitava: «Sorride il D’Alema da sotto il baffetto – dei funebri Apache attendendo l’effetto…». Ma il più carogna fu Vendola che allora aveva sul quotidiano di Rifondazione una rubrica: il «Dito nell’occhio». Sputacchiò D’Alema senza risparmio. Scrisse che era «grevemente atlantico, goffamente demagogico, cinicamente spoglio di dolore». Con «una spocchia da statista neofita e un parlare frigido e maestoso». Morale? Max era «livido come i neon del metrò».
In realtà D’Alema risultava molto diverso dai tanti boss della sinistra che oggi vediamo inchiodati alle poltrone. Un anno dopo la guerra in Jugoslavia, era il 2000, disse che il centrosinistra avrebbe stravinto le elezioni regionali, previste per la metà di aprile. Spiegò con sicumera: «Conquisteremo otto regioni, il Polo di Berlusconi tre. Le altre quattro ce le divideremo. Finirà dieci a cinque, a vantaggio del centrosinistra. E forse undici a quattro».
Invece dalle urne emerse una catastrofe: otto regioni al Polo, sette al centrosinistra. Il Cavaliere conquistò tutto il Nord, insieme al Lazio, l’Abruzzo, la Puglia e la Calabria. Un naufragio alla Fantozzi per Max che si vantava di essere un gran marinaio e di pilotare come nessuno il suo «Ikarus». Qualunque altro premier avrebbe fatto finta di nulla. Ma D’Alema era troppo orgoglioso della propria sapienza politica. E si dimise subito, lasciando il passo a un altro governo di centrosinistra, guidato dal socialista Giuliano Amato.
Il Bestiario si compiace di ricordare l’esempio di Max al premier di oggi, Matteo Renzi. E gli dice: vediamo come ti comporterai quando l’immigrazione selvaggia, che hai sempre ignorato, ti presenterà il conto di un disastro storico. Giampaolo Pansa (Liberoquotidiano)
Milano Post è edito dalla Società Editoriale Nuova Milano Post S.r.l.s , con sede in via Giambellino, 60-20147 Milano.
C.F/P.IVA 9296810964 R.E.A. MI – 2081845